LA LETTERA Caro
Celentano Pasquale Squitieri da il Giornale, sabato 5 Maggio 2001 Caro direttore, non entrerei nella polverosa, quanto dolorosa, polemica innescata da Celentano sui trapianti d’organi, se non avessi alle spalle un lungo viaggio nella disperazione, nella crudeltà, nell’orrore, intrapreso, proprio per la Rai, nel lontano 1990, nei Paesi del Terzo e Quarto mondo. "Geografia della fame", aveva per titolo la miniserie (realizzata con la preziosa collaborazione di Furio Colombo) che, partendo dalla relazione Craxi all’Assemblea generale dell’Onu, documentava, necessariamente per grandi linee, le condizioni di vita di oltre cinque miliardi di esseri umani. Quelli, cumulativamente, definiti "il Sud del Mondo". India, Brasile, Guatemala, Belize, Bolivia, Messico, Africa Centrale, e altre nazioni, crollavano sotto il peso del debito estero e l’arroganza delle oligarchie al potere. A queste s’aggiungevano le nuove povertà nate dallo sgretolamento dell’Urss. 11 reddito medio di questa massa biblica non raggiungeva e non raggiunge i 40 dollari l’anno. li primo impatto, cui non eravamo peraltro preparati, fu con l’espianto d’organi. In molti Paesi sudamericani non era raro uscire al mattino dagli alberghi e trovare, a pochi passi, nei bidoni deil’immondlzia, i cadaveri dl meninos de rua, privi dl occhi, reni, polmoni, midollo e perfino pelle. In altri Paesi (che non nomino, ma sui quali ho documenti filmati), le leggi stesse consentivano di vendere organi dei propri figli. Per cui si vedevano girare nelle strade limacciose bambini ciechi con grandi cicatrici sulla schiena. Mi risultava molto faticoso accettare l’ldea che quelle donazioni" fossero spontanee. Non era difficile scoprire invece, dove finivano quegli occhi, quei reni, quei polmoni. Al novanta per cento in Occidente. In quell’Occidente illuminato e civile che avendo vinto la sua guerra sul barbaro Oriente, ora mostrava il "suo volto umano". Per fame, l’uomo vendeva a pezzi quella sua persona destinata ad avere ormai un unico mercato. L’exploit Celentano mi ha costretto a rivedere quei filmali, assieme purtroppo a quelli più recenti che mi inviano amici registi in giro per il mondo e a riconsiderare il giro d’affari di questo inumano business, a rivivere l’incubo di chi si aggrappa alla morte altrui per allontanare, sia pure per qualche giorno e senza certezze, la propria. "Mors tua, vita mea", al liceo ci sembrava una formula tanto crudele. Detta invece in tv da illustri clinici, appare come la chiave della beatificazione. Addirittura un "dovere". Una mia amica, in una clinica del nord, attende da anni un trapianto di fegato. La tengono in vita in attesa di quel giorno, di quell’intervento dall’esito per nulla scontato. Il fegato adatto non arriva. Crepe solo gente di gruppo A e lei è di gruppo B. E’ diciottesima in lista e per scalare la classifica deve augurarsi la salvezza (dovuta comunque alla morte di altri) o la fine degli altri concorrenti. Parlando di lei con i chirurghi, mi sono sentito rispondere che "bisogna aspettare il sabato sera". Ci ho messo un po’ a capire che aspettavano "le stragi" del sabato sera. Lei, nel suo lettino, mi guardava con le pupille spalancate. "Perché non mi lasciano morire?", mi ha chiesto. Accanto a lei, marito, figli, parenti. Ognuno di loro potrebbe compiere la vera donazione, il vero, autentico atto d’amore (come qualcuno, degno di tutto il nostro rispetto, ha fatto). No, attendono che qualche giovanotto gonfio di pasticche e alcol, vada a schiantarsi contro un Tir. E’ questa la cultura che ci ha lasciato, professor Barnard? Pasquale Squitieri |
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