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L'EUROPA UNITA
ULTIMA UTOPIA

di RALF DAHRENDORF

La Repubblica 05.09.2001


GIORNI fa ho preso parte a un dibattito sull'Europa con Daniel Cohn-Bendit, davanti a un pubblico internazionale di giovani professionisti, al ministero degli Esteri di Berlino. Nel suo intervento iniziale, il mio interlocutore ha dimostrato un crescente entusiasmo. "Pensate", ha detto "che ogni bambino nato oggi in Europa comprerà il suo primo gelato pagandolo in euro!". E ha proseguito: "Se nel 1945 qualcuno avesse detto ai miei genitori (ebrei) che un loro figlio sarebbe stato un giorno ospite d'onore al ministero degli Esteri tedesco, lo avrebbero preso per pazzo". E ancora: "Nonostante tutte le loro pecche, Kohl e Mitterrand sono i maggiori statisti del nostro tempo, poiché hanno saputo trasformare l'unificazione tedesca in un trionfo per l'Europa".
Da qualche tempo ho l'impressione che l'Europa - anzi, esattamente l'EUropa - sia diventata l'ultima utopia per gli esponenti della sinistra. Se qualcuno fa loro presente (come ho fatto discutendo con Daniel Cohn-Bendit a Berlino) che l'EUropa non è poi così importante e gloriosa come sembrano credere, si affrettano a ribattere con qualche bella frase hegeliana del tipo: "D' accordo, l'Europa di oggi ha i suoi punti deboli, ma sono aspetti temporanei, e stiamo lavorando per superarli". Si sgombra il campo da ogni critica assicurando che anche se tutto non è "ancora" perfetto, lo diventerà col tempo.
Personalmente, non sono un euroscettico - e men che meno nel senso britannico del termine. Ma la mia posizione sull'integrazione europea è di segno del tutto diverso da quella di Daniel Cohn-Bendit (così come dalle tesi di Jrgen Habermas, pubblicate da "Repubblica", in favore di una Costituzione europea come espressione dell'identità dell'Europa).

Osservo che l'Unione europea gestisce poco più dell'1,1% del prodotto interno lordo dei suoi stati membri, i quali dal canto loro ne amministrano una quota pari o superiore al 40%. Rammento le strane politiche che assorbono gran parte del bilancio, e in particolare la politica agricola comune. Ma insisto soprattutto sulla democrazia.
Non dimentichiamolo: la stessa costruzione della Comunità economica europea non è avvenuta per via democratica. Né il Consiglio dei ministri, né la Commissione, e neppure l'Assemblea originaria meritano questo aggettivo. È vero che oggi il Parlamento europeo è eletto democraticamente e ha un certo potere di codecisione; ma neppure i suoi più accesi sostenitori si azzarderebbero ad affermare che questo basti a creare una democrazia europea.
Di fatto, più si guarda all'Unione europea e più si rimane colpiti dalla natura tecnica della sua costruzione, che per vari importanti aspetti assomiglia più all'Unione postale internazionale che agli Stati Uniti d'America. È l'amministrazione di un'unione doganale, con un'enorme sovrastruttura di istituzioni – per non parlare del linguaggio visionario e magniloquente che l'accompagna. Questo è forse l'aspetto peggiore dell'Europa: tante minuzie tecniche ammantate da una specie di sceneggiata euronazionalista.
È chiaro che Daniel CohnBendit, Jürgen Habermas, Joschka Fischer e varie altre personalità di orientamento analogo hanno a cuore la costruzione europea, tanto da parlare dell'Europa un po' come i nazionalisti di vecchio stampo parlavano della patria (con tutte le relative esclusioni: quando, a Berlino, ho menzionato la Svizzera, Daniel CohnBendit ha esclamato: «Ma la Svizzera non è Europa!»).
Recentemente, la nozione di Europa ha acquisito una colorazione antiamericana e anticapitalista. L'Europa per la quale Habermas reclama una Costituzione va difesa contro l'egemonia del capitalismo Usa.
Per parte mia, non ho stretto legami affettivi con nessuna entità geografica o politica. Ciò che mi sta a cuore è la libertà. E posso entusiasmarmi per chiunque la difenda e la promuova, anche quando si tratta di un paese. In quest'elenco gli Stati Uniti – malgrado tutte le loro escrescenze e quant'altro – figurano in testa. Mentre l'Europa, o l'Unione europea, sembra finora più incline alla burocrazia e al protezionismo che alla promozione di un ordinamento liberale.
Con questo non cerco affatto di negare l'esigenza della cooperazione europea, né, per alcuni settori, quella dell'integrazione. L'Unione doganale rappresenta una misura razionale, e il mercato unico ideato da Jacques Delors è un progetto brillante. Ma si può dubitare, al di là delle parole, delle reali prospettive degli sforzi in atto per la definizione di una politica estera e di sicurezza comune. In fatto di sicurezza, con la Nato siamo in buone mani; e anche in futuro, ogni qualvolta un conflitto minaccerà di aggravarsi, l'Europa farà appello al sostegno americano. D'altra parte, alla voce «giustizia e affari interni» figurano varie questioni che si possono affrontare al meglio nell'ambito di una cooperazione europea. Ma c'è da augurarsi che non se ne abusi per imporre a tutti un minimo comune denominatore in fatto di libertà.
E l'euro? Si può certo vederlo come il risultato di una preoccupazione condivisa da Kohl e Mitterrand: il timore di veder risorgere il nazionalismo tedesco. Dubito però che, da solo, l'euro possa costituire una barriera sufficiente contro questo rischio. Il rublo non è certo bastato a mantenere la coesione dell'ex Unione Sovietica, così come la corona cecoslovacca non ha evitato la disintegrazione della Cssr. L'euro è innanzitutto una misura tecnica, di sostegno al mercato comune per un certo numero di stati membri. E c'è da chiedersi se veramente coloro che da tempo criticano il «nazionalismo del marco» se la prenderanno ora con un «nazionalismo dell'euro». Speriamo di no, se non altro perché dopo l'allargamento dell'Ue, gli stati membri che faranno parte anche di Eurolandia saranno meno della metà.
Ma nel dibattito con il deputato europeo CohnBendit sono stato colpito soprattutto dalla diversità di livello tra il suo discorso e il mio: il suo entusiasmo visionario, la sua emozione da un lato, e dall'altro il mio pragmatismo scettico e razionale. Vale la pena di notare che nel dopoguerra, all'inizio del processo di integrazione europea, gli entusiasti erano i democristiani, mentre a sinistra c'era molta cautela e spesso una netta opposizione. Ma qualunque sia la lettura da dare a questo mutamento, resta il fatto che il divario più profondo si apre oggi tra chi aspira a un'Unione sempre più stretta, e chi ha a cuore valori quali la democrazia e la libertà. E nessun segnale lascia intravedere una soluzione di questo conflitto.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

DOPO DURBAN

LA GRANDE OCCASIONE
DI LIQUIDARE I VERTICI

Ida Magli

da il Giornale, sabato 8 Settembre 2001

Berlusconi si trova davanti un’occasione splendida. Proporre con forza a tutto l’Occidente la necessità di cambiare molte delle istituzioni internazionali e mondiali che sono nate in un contesto molto diverso da quello attuale, alla fine della prima e della seconda guerra mondiale. Erano istituzioni che si proponevano come mezzi per prevenire i conflitti e allo stesso tempo per tentare di «governare» le trasformazioni che la fine degli imperi e l’affacciarsi alla ribalta della politica di tanti popoli fino allora silenziosi portavano inevitabilmente con sé. Quasi tutte queste organizzazioni si fondavano però, in modo più o meno esplicito, sulla forza degli Stati Uniti (basti pensare all’Onu) sull’alleanza che i Paesi dell’Europa d’Occidente e, attraverso la Gran Bretagna, quelli appartenenti all’ancora estesissimo Commonwealth, formavano spontaneamente con gli Stati Uniti. Dunque l’Occidente era quasi sempre certo di poter condurre le decisioni nella direzione di volta in volta ritenuta più utile, pur assicurando la partecipazione e il voto ai Paesi più piccoli e meno importanti sulla scena del mondo. Oggi non è più così. Queste istituzioni sono in crisi, e anzi il più delle volte addirittura disfunzionali perché la situazione politica, economica, religiosa, culturale è profondamente cambiata e la retorica delle parole e delle esibizioni solenni, con le quali si tenta di tenerle in vita, è ormai logora e controproducente. Insomma i rapporti di forza non sono più gli stessi. È questa dunque l’occasione, per un uomo nuovo della politica come Berlusconi, per proporre una profonda svolta nella politica estera; una svolta che gli Italiani che l’hanno votato si aspettavano già da Genova e che adesso è diventata indispensabile anche soltanto a livello di buon senso. Si prenda atto, per prima cosa, che riunioni plateali in cui i rappresentanti di miliardi di uomini, appartenenti a lingue, culture, religioni, storie, costumi diversi pretendano di poter prendere decisioni fondamentali nel giro di qualche giorno, non sono soltanto prive di principio di realtà ma addirittura offensive per gli stessi popoli. Del resto non è un caso se già da diversi anni finiscono con un nulla di fatto o con soluzioni di compromesso atte soltanto a salvare la faccia. Né, d’altra parte, ha senso accusare l’uno o l’altro Stato di non aver voluto trovare un accordo: non si trova perché non si può trovare. Quello che è successo in questi giorni nella conferenza sul razzismo ne è soltanto un'ennesima prova ma dovrebbe anche mettere in guardia i governanti sui pericoli che alla fine queste assise mondiali potrebbero comportare. Nella storia dell’umanità ci sono problemi di tale complessità psicologica, culturale, religiosa, che i governanti non dovrebbero mai affrontare con la sicumera della soluzione «politica». Che cos’è il razzismo? Gli antropologi si sono affaticati per oltre tre secoli senza riuscire a trovare una definizione concettuale univoca, rispondente a tutti i periodi e a tutti i sistemi sociali della storia dell'umanità. Quando il Corano afferma, nella sura della vacca, che: «gli uomini hanno sulle donne un grado di superiorità» (ed. ital. Hoepli; il corsivo è nel testo) è razzista oppure no? Eppure molti dei popoli che oggi contestano il razzismo sono credenti nel Corano. E ancora. Sono stati soltanto gli Europei della Conquista a istituire la schiavitù? La storia ci dice che non c’è e non c’è stato nessun popolo fin dall’antichità che non abbia ritenuto normale l’esistenza della classe degli schiavi: prigionieri di guerra, figli illegittimi debitori, nati da schiavi.. Gli Ebrei, che lamentavano la loro schiavitù in Egitto possedevano anch’essi degli schiavi, così come gli Egiziani, i Persiani, i Greci, i Romani e via via quasi tutti i grandi Regni africani e quelli Inca, Aztechi, Maya... E il sistema delle caste, tuttora vigente in tanta parte dell’India, non è forse una forma di schiavitù? Che cos’è un «intoccabile» se non il più emarginato, il più impuro degli uomini? Prendere tutta la storia dell’umanità in un solo fascio e deciderne il significato in tre giorni è un'impresa priva di senso, come tale ingiusta, e non può portare, come ha portato, ad altro che a gravissime incomprensioni. Rimane senza dubbio il fatto che i popoli cristiani hanno maggiori responsabilità in quanto soltanto Gesù di Nazaret, in un mondo dove la schiavitù era normale, ha liberato con la sua parola tutti gli uomini dalla prigionia della nascita. Ma è anche vero che oggi non ne discuteremmo se non ci fosse stato il faticoso itinerario dei cristiani verso questa consapevolezza.

In conclusione questo chiediamo a Berlusconi: che inviti tutti gli Stati ad azzerare il sistema dei vertici internazionali, cominciando da quelli prossimi previsti in Italia, in attesa di inventare nuove formule o forse, meglio, di ritornare a quegli accordi fra due o tre Stati che possono sempre esser estesi a quelli che li troveranno utili, senza chiamare tutto il mondo ad approvarli. Gli italiani, poi, non soltanto non vogliono prestarsi al gioco al massacro che si sta preparando, malgrado tutto, contro il proprio legittimo governo, ma lo incitano ad assumere un ruolo ben più importante della vetrina: dimostrare con la serietà di un lungo studio il rispetto per le diversità dei popoli, e il desiderio di comprenderli e di aiutarli senza esibizioni di elemosine.

Ida Magli

 

 

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