di Ida Magli
Sabato 8 Giugno 2002 |
Bisogna riconoscere ancora una volta che gli Italiani, come è sempre
successo nella loro lunghissima e tragica storia, intuiscono senza la
minima incertezza quale sia il confine della dignità, il senso reale
della dignità di un popolo, al contrario dei loro governanti che non l’hanno
mai saputa né cercare né conservare. E' il caso, oggi, del
comportamento, del volto dei nostri calciatori, così seri, così
concentrati, eppure imperterriti nel non cantare l’inno di Mameli all’inizio
dei mondiali. Le appassionate, quasi furenti incitazioni di politici e di
giornalisti a compiere questo “dovere”, non sono riuscite a
raggiungere lo scopo.
Naturalmente il primo punto, pur non essendo il più
importante, che è alla base del composto silenzio dei calciatori risiede
nel fatto che la non-musica, la non-poesia non può
"rappresentare" quel Popolo, quella Nazione che ha dato al mondo
la più grande creazione di bellezza musicale; un patrimonio talmente
ineguagliabile da essere considerato un tutt’uno con l’Italia. Non
c'è arrangiamento orchestrale, non c’è restauro filologico che possa
far diventare musica quello che musica non è. Se gli Italiani non
riescono a ricordare le parole, non riescono a intonare l’inno di
Mameli, è perché non sono né stupidi, né folli: quello che non esiste,
non esiste. Ma il silenzio dei calciatori va oltre. Esso possiede un
significato e manda un messaggio da uomini a uomini, da italiani ad
italiani, che dobbiamo, non soltanto apprezzare afferrandolo al volo, ma
sul quale dobbiamo riflettere proprio perché è inespresso.
Essi sanno
che sono “calciatori”, non soldati che vanno ad uccidere e a farsi
uccidere per difendere la Patria e ci dicono che non accettane questa
grottesca analogia che tutti vogliono ritagliargli addosso. Ed è ancora
qui che essi ci danno una straordinaria lezione di dignità. Ci si può
entusiasmare per il calcio, fare il tifo per la propria squadra, ma non
confonderla con la Patria, come tendono a far credere i politici e i
giornalisti. Se diamo uno sguardo alla dimensione simbolico-concreta di
una partita calcistica, non ci è difficile vedere che si tratta della
messinscena di una battaglia: ogni squadra possiede un territorio,
delimitato da confini sui fianchi e al centro dove inizia il territorio
del nemico. La porta, il cui sfondamento rappresenta la sconfitta, è in
realtà l’Acropoli, il Campidoglio, il Quirinale, ossia quel bastione ultimo e sacro nel quale risiede il Potere istituzionale.
Una volta abbattuto questo il popolo diventa possesso del conquistatore. Il fatto che la
battaglia si svolga con i piedi rafforza il significato primario di
attaccamento al territorio perché è in questo modo che l'uomo diventa proprietario di una
terra: camminandovi sopra, dominandola con la potenza dei propri piedi.
Senza offesa agli appassionati del calcio, bisogna riconoscere che questa
passione si fonda su di un gesto, un avvenimento primordiale.
Ma i giochi
sono giochi. Non hanno nulla a che fare con quelli dell’antica Grecia
in cui gli atleti dimostravano la propria abilità in quanto preparazione
al combattimento e alla vittoria: marciare, correre, tirare pietre,
tendere l’arco, scagliare frecce, lottare corpo a corpo, erano le arti
indispensabili nella guerra dell’antichità. Ulisse era l’eroe che
sapendo tendere l'arco come nessun altro, non poteva non sterminare con
quello stesso arco tutti i suoi nemici. E la Grecia calcolava il tempo
della propria storia in base al numero progressivo delle Olimpiadi. Con
l'ultima ad essere computata, la duecentenovantatreesima,
finisce la civiltà del mondo antico. L’imperatore Teodosio abolisce
nel 394 d.C. i giochi ad Olimpia: comincia il Medioevo.
I nostri calciatori, dunque, non sono guerrieri e ci invitano
a non perdere il senso della realtà. Lo fanno proprio in un momento che può essere determinante per
capire che cosa sia la Patria. Senza identità culturale, senza confini,
senza una religione la Patria non sussiste. Noi gli siamo grati di
non accettare di essere trasformati in eroi.
Ida Magli