Chi sono gli intellettuali, i filosofi e gli economisti contrari
all'Unione delle burocrazie?
Ecco la mappa ragionata dei "nemici del Leviatano"
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L'Europa degli
euroscettici |
di Carlo Lottieri
Il Giornale |
Mercoledì 13 Marzo 2002 |
Sono ormai molti, in Europa, gli uomini politici apertamente contrari
al progetto di unificazione che vorrebbe dissolvere le istituzionali
nazionali per dare vita a un superstato. È sufficiente prestare
attenzione a ciò che sta avvenendo in Francia per constatare come l’Europa
in costruzione sia avversata non solo dall’estrema destra lepenista o
dall’estrema sinistra no global, ma anche da un gollista (già
ministro degli Interni) come Jacques Pasqua e da un socialista come Pierre
Chevènement. E se di fronte allo svizzero Christopher Blocher l’Europa
non gode di buona stampa perché troppo socialista, in Danimarca la moneta
comune è stata rigettata in primo luogo per la mobilitazione di movimenti
di sinistra timorosi di assistere a una riduzione dello Stato sociale. Non
esiste, allora, alcuna omogeneità di posizioni tra le formazioni
politiche antieuropeiste.
Se però si abbandona il terreno dei partiti e ci si sposta, piuttosto,
in quello dei dibattiti teorici e culturali, in tal caso è legittimo
affermare che il panorama euroscettico è popolato per lo più da
conservatori, liberali classici e libertari. E se non vi è certo
unanimità di posizioni tra quanti intendono avversare quel Leviatano che
sta per insediarsi a Bruxelles, è pur vero che una comune impostazione
liberale finisce per prevalere su ogni altra cosa.
PAURA DEL CONTINENTE
L’area in cui la "resistenza" ai nuovi poteri continentali
risulta maggiormente consolidata è, senza dubbio, quella britannica.
Attorno a un’organizzazione conservatrice come la European foundation
(che pubblica The European Journal) gravitano studiosi di valore
come Kenneth Minogue, Norman Barry, Russell Lewis anche quel Frederick
Forsyth notissimo anche da noi quale autore di romanzi di spionaggio.
Ugualmente impegnato in questa battaglia è pure lord William Rees-Mogg,
già direttore del Times a fine anni Settanta e approdato, negli
anni scorsi, al liberalismo libertario con un volume di successo (The
Sovereign Individual, pubblicato da Simon & Schuster nel 1996).
Un altro euroscettico britannico piuttosto noto è Bemard Connolly,
qualche tempo fa sulle pagine di tutti i giornali perché licenziato dalla
Commissione europea proprio a causa delle sue opinioni politiche e, nello
specifico, per avere scritto un libro (The rotten hearth of
Europe) che denuncia i vizi intrinseci del processo di unificazione.
Ugualmente importante è quel gruppo di intellettuali da cui è nata l’associazione
Global Britain, a cui dà il proprio contributo una delle maggiori figure
del liberalismo classico inglese, lord Harris of High Cross (che alcuni
decenni fa fondò l’Institute of economic affairs di Londra e
pose le premesse per la rivoluzione antistatalista degli anni Ottanta).
Dalla Germania in particolare, provengono nemici dichiarati dell’Europa
e studiosi di assoluto valore come l’epistemologo
popperiano Gerard Radnitzsky (che sul piano politico abbraccia il
libertarismo più intransigente) e il filosofo-economista Hans-Hermann
Hoppe, già allievo di Habermas e soprattutto di Rothbard, che riconobbe
in lui il migliore prosecutore dei suoi studi.
È interessante notare come questi intellettuali siano contrari all’unificazione
politica europea proprio perché liberali. A loro non importa tanto che l’Unione
minacci la "sovranità" delle istituzioni nazionali: la loro
tesi, se mai, è che Bruxelles si appresta a essere la base d’appoggio
di un nuovo e immenso potere a vocazione totalitaria, ancor più lontano
dai cittadini e ancor più dispotico, centralizzato, pervasivo. Il
dispotismo attuale degli Stati nazionali, insomma, è destinato ad essere
amplificato dalla creazione di un potere di taglia continentale.
Per Hoppe e Radnitzsky è quindi necessario difendere la concorrenza
tra istituzioni Per avere più libertà, infatti, bisogna che le classi
politiche siano poste in competizione tra loro; ma perché in un’area
come l’Europa ciò sia possibile dobbiamo avere numerosi governi, ben
distinti, indipendenti e quindi costretti a rivaleggiare. Se oggi in
Germania le tasse vengono innalzate, i capitali e le imprese possono
dunque spostarsi in Austria o in Italia, in Francia o in Ungheria; allo
stesso modo, se la Francia adotta le 35 ore obbligatorie per legge,
qualche azienda si trasferirà in Olanda, in Spagna o in Belgio.
LA LIBERTÀ DEI COMUNI
L'Europa medievale, di cui siamo eredi, è stata all’origine del
grande successo dell’Occidente perché entro quel mondo non riuscì a
imporsi un potere imperiale in condizione di tenere tutto il suo
controllo. In altri termini, l'Europa non divenne mai la Cina e per questo
motivo ebbe la meglio su ogni altra civiltà.
Significativo, a tale riguardo, è che nella Svizzera federale numerosi
ricercatori siano persuasi che una struttura istituzionale come quella
elvetica non possa sopravvivere entro l’Europa centralizzata che sta per
vedere la luce, incapace di rispettare il diritto all’auto-governo e la
specificità delle molteplici realtà. Questo spiega pure perché lo
zurighese Liberales institut di Robert Nef esprima giudizi molto
netti nei riguardi dell’Europa attuale e della sua vocazione statalista,
così come fanno due prestigiosi economisti di quel Paese: Bruno
Frey e Victoria Curzon-Price.
Perfino fuori dall’Europa dei quindici, a ogni modo, c’è già chi
inizia a ribellarsi dinanzi al "nuovo impero" in costruzione. A
Praga, così, nel Liberalni institut è attivo Josef Sima, molto
critico con quanti stanno favorendo l’ingresso della Repubblica ceca all’interno
dell’Unione. E un atteggiamento analogamente negativo verso il processo
in atto, che prima o poi porterà là Romania sulla medesima strada, si
ritrova negli scritti dell’ottimo Christian Comanescu (responsabile del Mises
institute di Bucarest) ed! altri liberali dell’Europa
centro-orientale.
DIFENDERE LA PLURALITÀ
Nemmeno in quella Francia sospesa tra lo sciovinismo più ottuso e l’europeismo
più acritico mancano importanti voci liberali, che si sforzano di
segnalare i rischi della situazione in cui ci troviamo. Economisti
innamorati dei diritti individuali come Gérard Bramoullé, Jean-Pierre
Centi, Jacques Garello, Bertrand Lemennicier e Pascal Salin - anche grazie
a quell’ottima rivista che è il Journal des économistes etdes
études humaines - da anni indicano ai loro concittadini come l’alternativa
non sia tra un nazionalismo patriottardo e un preteso internazionalismo
europeista, dato che proprio il processo di "armonizzazione"
forzata della società europea comporta la cancellazione delle libertà
individuale delle diversità (sociali, tradizionali, culturali).
Dall’Ungheria, anche se da decenni è attivo tra Francia e Gran
Bretagna, viene invece Anthony de Jasay, autore di uno dei maggiori testi
di teoria politica del Novecento, The State. Ma in questa
"internazionale liberale dell’euroscetticismo" figura pure un
nome piuttosto noto pure al grande pubblico: Vladimir Bukovskij. Dopo
avere a lungo patito i rigori del regime sovietico, da tempo lo scrittore
russo vive in Gran Bretagna e non perde occasione per sottolineare come la
presunta ineluttabilità del processo d’unificazione europea possa
condurre a una sorta di Unione delle repubbliche socialiste europee:
repressiva, intollerante, impicciona, guidata da politici e burocrati del
tutto privi di controlli e alternative. Perché questo è il punto: un’unificazione
nemica del pluralismo istituzionale e pianificata dall’altro, introdotta
da una moneta imposta d’imperio, concretizzata da una sfilza di
direttive e decisioni arbitrarie (si pensi, ad esempio, all’operato di
Mario Monti in tema di concorrenza), "costruita" in laboratorio
da un minuscolo cenacolo di professionisti della politica riuniti in
conclave per redigere una nuova Costituzione è, senza dubbio, qualcosa di
posticcio, fittizio, del tutto artificiale. Molte cose uniscono gli
europei e tale loro comunanza può certo crescere nei prossimi anni, ma
non si vede perché tutto questo debba essere il
frutto di un’azione coercitiva che consegna più di trecento milioni di
individui a una ristretta élite tecnocratica.
Per Hoppe, de Jasay, Radnitsky e Salin (i cui scritti
"antieuropei" stanno per essere raccolti in un volume delle
edizioni Leonardo Facco, in cui compaiono anche alcuni saggi di Sergio
Ricossa, Enrico Colombatto e Alessandro Vitale) l’Europa deve insomma
cercare un'altra strada. più fedele alle proprie tradizioni e
maggiormente rispettosa della pluralità delle sue voci ed identità. Come
ha scritto l’inglese Chris Tame della Libertarian alliance, d’altra
parte, "se esiste qualcosa che differenzia la civiltà europea dalle
altre civiltà, storiche o contemporanee, è proprio l’ideale della
libertà e della diversità". Ma in queste parole riecheggia una nota
espressione di un grande liberale dei decenni scorsi, Wilhelm Roepke,
secondo cui "la decentralizzazione è l’essenza dello spirito
europeo".
Carlo Lottieri
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Le tesi britanniche di Lord Harris, l’individualismo
del tedesco Hoppe, le perplessità francesi di Salin e Garello, i
timori dei federalisti svizzeri
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