Editoriale  

Alluvioni 

 
di Giordano Bruno Guerri
Il Giornale | 28 Novembre 2002

“Calamità naturale” è purtroppo un’espressione di grande attualità, ormai così frequente che non ci si sofferma neppure a considerarne il senso. Significa una disgrazia prodotta dalla natura. Per gli uomini primitivi era una calamità naturale la pioggia, che impediva loro di uscire a caccia; per altre popolazioni poco meno primitive era una calamità naturale la neve, che distruggeva i raccolti e le costringeva a lunghe migrazioni. Per millenni si è avuto talmente paura delle “calamità naturali” che le religioni erano fatte quasi soltanto di dei che rappresentavano le forze della natura, da quietare con sacrifici. Poi in nostri lontani progenitori hanno compiuto enormi progressi nella loro rozza tecnologia, nella scienza, e hanno imparato a controllare e prevedere, per quanto potevano, la natura: questo ha permesso la nascita della spiritualità e delle grandi religioni monoteistiche. Ma, evidentemente, non ha ancora permesso che fiumiciattoli come il Lambro terrorizzino la grande e potente città di Milano. Che miserabili torrenti siano lasciati in grado di disfare la Liguria, una terra che è stata capace addirittura di dominare il mare. Dominava il mare, e non solo, anche Venezia, ma oggi ogni anno si lascia che il mare giochi a riprendersela per un po’. Però questo non è un articolo di colore o di storia finito per sbaglio a fare l’editoriale, è uno scritto d’ira e di disgusto politico. Il mio primo contatto attivo, non infantile, con la società italiana e l’Italia fu quando – ragazzino – scappai da casa per “andare a salvare Firenze” dall’alluvione, ed era il 1966. Oggi abbiamo la Protezione Civile che si occupa di queste cose, e la legge sulle calamità naturali che le risarcisce. In compenso fiumi, torrenti e pozzanghere continuano a strabordare, distruggere e uccidere più di allora. I monti franano a valle, i greti si sgretolano, gli argini non reggono, a nord, a sud, al centro, ogni anno, ogni anno, ogni anno. Eppure sappiamo benissimo che esistono ormai da decenni carte geologiche che indicano, con precisione, i punti deboli e pericolosi; che esistono studi di fattibilità per anticipare, evitandolo, questo o quel disastro. Eppure, decennio dopo decennio, decine di governi non hanno fatto niente per evitare tutto ciò, per dare mano ai lavori di risistemazione idrogeologica di un Paese che sta crollando, che si sta sfacendo su se stesso. Si è sempre preferito fare sacrifici per entrare in Europa, per costruire stadi adatti alle olimpiadi e ai campionati di qualsiasi genere, costruire autostrade eccetera. Cose belle e utili, sì, ma soprattutto di resa immediata per il politico, di grande immagine, e del resto il Bel Paese è bello d’estate, per il turismo. (Tranne che in Sicilia, certo, dove per un'altra “calamità naturale” si soffre la sete.) D’inverno, si spera nel bel tempo, nello stellone, e soprattutto che la disgrazia, lo smottamento, l’alluvione avvengano nella provincia, nella regione vicina alla tua. Poi, i soldi per la “calamità naturale”, abbondanti, serviranno a riparare i guasti, ma non a risarcire dolore e morte, non a prendere provvedimenti perché la stessa disgrazia non avvenga più. Tutto ciò non è il segno di un Paese fatalista o male organizzato, perché non siamo più un Paese fatalista – tanto ci va male il fato – né così sbracalone come un tempo. E’ il segno chiaro, indiscutibile, criminale, di un paese malcondotto politicamente, dove quello che si avviava a diventare il problema principale è stato trascurato perché poco redditizio dal punto di vista della resa politica: se io costruisco un argine in modo che il fiume non straripi, il fiume non strariperà, ma chi se ne accorge, allora? Dell’autostrada nuova, invece, si accorgono tutti. Poiché tutto è politica, vale la pena di osservare che la legge sulla devolution, così ostacolata proprio da quel centrosinistra che ha permesso un simile sfacelo, servirà anche a questo, perché ogni regione curerà argini e montagne di casa sua. Infine io mi auguro, io chiedo, io voglio che il governo Berlusconi – il quale si è proposto con un modo nuovo di guidare il Paese – non segua la logica dell’opera visibile trascurando quella invisibile. Senza coinvolgere su questo le posizioni del Giornale, chiedo al governo che venga accantonato il progetto del Ponte sullo Stretto, e che l’enorme cifra richiesta venga impiegata per rimettere insieme l’Italia. Di questo abbiamo bisogno, Presidente.

Giordano Bruno Guerri

 


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