|
Quando a
Bruxelles
sfidano l'assurdità |
Alberto Ronchey
Corriere della Sera
|
Mercoledì 13 Marzo 2002 |
Non
si possono assolvere, d'accordo, le requisitorie paradossali e le
invettive iperboliche di Umberto Bassi contro l'"eurocrazia" di
Bruxelles. Ma neanche si può pretendere che la Commissione di Bruxelles,
con le sue manie precettistiche su ogni materia, sia superiore a ogni
critica, specialmente quando complica la vita dei cittadini europei. Ormai
le direttive del "super-Stato" risultano inflazionate al punto
che la loro raccolta, secondo chi ha voluto contarle, avrebbe raggiunto
circa 80 mila pagine. Di che si tratta? Basta considerare alcune
questioni minori, o anche primarie, discusse negli ultimi anni. Per
esempio, in materia di produzioni agroalimentari. Più che vietare le
adulterazioni transgeniche rischiose, il contenzioso ha investito le paste
di grano duro e tenero, i formaggi artigianali come quelli di Val Brembana
o Val d'Ossola, il cioccolato con o senza grassi vegetali, l'appropriata
curvatura delle banane o la misura del cetriolo e altre bizzarre
questioni. Qualcuno vaneggia in certi uffici di Bruxelles, con le più
abusive pretese. Fra le ultime, a quanto dicono persino quella di
uniformare il colore dei tassì nell'intera europa dei Quindici. A
Bruxelles, certo, si trattano anche problemi di rilevanza ben maggiore, ma
non senza che affiori qualche smania iperdecisionista. Si direbbe proprio
attuale un sapiente monito del Romagnosi, l'insigne maestro di Cattaneo e
ispiratore delle più ragionevoli concezioni federaliste nell'ambito
dell'unificazione italiana: "Le piccole teste sono soggiogate
dall'idea dell'uniformità, la quale poi è comoda perché dispensa dal
pensare. I gretti ammiratori di un aspetto solo ben ordinato crederebbero
di peccare soggiungendo varietà, che senza urtare il sistema generale
sarebbero un guastar l'opera loro". A maggior motivo, quell'avviso
appare oggi valido nell'ambito del confederalismo europeo. Sull'Unione
gravano già importanti e impegnative competenze, come la moneta euro, i
bilanci e i debiti statali, la concorrenza interna tra commerci e
industrie. Perché, invece, tante arbitrarie volontà di potere tendono a
dettare norme su qualsiasi dettaglio della comune convivenza? Meglio
sarebbe se l'"eurocrazia", tralasciando le dispute inessenziali,
volesse affrontare una questione vitale come quella ecologica ben al di
là dell'accordo di Kyoto. Potrebbe tentare, con ogni suo potere tecnico e
finanziario. Dopo tutto, sui fronti dell'ecologia l'Unione europea è
vulnerabile al massimo grado se misuriamo la sua esiguità territoriale
insieme con la densità dell'industria e della popolazione per chilometro
quadrato. Si tratta di conciliare fenomeni d'accrescimento illimitato
(produzione, consumi di massa, inquinamento, immigrazione extracomunitana)
e fattori limitanti (spazio, risorse naturali, difficile controllo dei
sistemi tecnologici e organizzativi complessi). A sua volta, in Italia,
chi accusa l'europeismo di Bruxelles come l'ultimo e nefasto residuo degli
statalismi dovrebbe specificare, distinguere, proporre limiti più sensati
per l'opera dell'"eurocrazia". Nell'ambito del federalismo
italiano, Umberto Bossi potrebbe o anzi dovrebbe sorvegliare poi con la
massima cura il prevedibile rapporto fra la devolution delle
competenze riconosciute alle amministrazioni locali e le risorse concesse
da Roma per finanziare quelle funzioni e quei pubblici servizi. Fiscalità
locale in parte sostitutiva di quella statale, oppure aggiuntiva? Il
rischio è che alla fine, malgrado intenti e proclami, la pressione
fiscale complessiva risulti aggravata invece che attenuata, con danno per
l'economia nazionale. I padani di Bossi, gente pratica, già temono una
simile prospettiva. Si potrà dire ancora molto su certe pratiche invasive
di Bruxelles, ma la politica estera comincia sempre in casa.
Alberto Ronchey
|
|
|