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La fragilità del sesso forte |
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di Ida Magli
il Giornale |
Mercoledì 16 Ottobre 2002 |
Gli omicidi all’interno delle famiglie sono diventati una notizia
quasi quotidiana. I giornalisti che interrogano i vicini, i compagni di
lavoro, i parenti, si sentono ripetere tutti la stessa cosa: era una
persona normale, non sembrava affatto violenta, forse era un po'
depresso perché si era separato dalla moglie, lontano dai figli...
Questo, però, è un primo punto sul quale è indispensabile fermare l’attenzione:
chi uccide è nella maggior parte dei casi il maschio, marito, padre,
che non riesce a trovare «giusta» la legge della separazione dalla
moglie e dai figli, anche quando è sanzionata dai Tribunali. Vorrei che
fosse ben chiaro che le riflessioni che seguono non devono essere
interpretate come un tipo di giustificazione dell’omicidio, quale che
sia la «causa» immediata che può averlo scatenato. Al contrario,
quello che desidero che venga a tutti i costi preso in considerazione è
che l’omicidio è diventato (o almeno sembra diventato) un gesto
risolutorio quasi «ovvio», facile, come l’unico possibile, e non è
più percepito nella sua radicale inammissibilità della convivenza
umana. È quindi necessario interrogarsi tanto sulle eventuali responsabilità
di tutto il nostro tessuto sociale, quanto e soprattutto, sulla deprivazione
del ruolo che l’uomo-maschio ha subìto nel giro di pochissimi anni
proprio nell’ambito familiare e sessuale senza che, una volta
proclamata la parità con le donne, si sia costruito nulla al posto di
ciò che era andato perduto. Anzi. Le donne adoperano ormai in modo
spavaldo ed esibito tutte le armi della seduzione, e al tempo stesso l’aggressività
e la competitività nel lavoro che fino a pochi anni fa era prerogativa
dei maschi. Nessuno però si preoccupa di stabilire nuove regole, nuovi
limiti di comportamento, nuove immagini ideali, né per l’uomo né per
la donna, sulle quali modellarsi, con le quali comunicare. Non ci sono
più le classi a separare gli eventuali rapporti, neppure le classi d’età,
come purtroppo vediamo quasi tutti i giorni, con una confusione tale che
i giornalisti si sono abituati a chiamare «ragazzi» sia gli uomini di
trenta anni che le bambine di quattordici. Rimane il fatto che,
comunque, in una società drammaticamente aggressiva, i governanti, i
leader religiosi, gli insegnanti predicano, come se si trattasse di cosa
naturale, la non-aggressività, tanto da limitarne perfino l'uso
linguistico. Parlano soltanto di pace, di tolleranza, di perdono,
dimenticando che l'uomo è fornito di uno strumento di aggressione e di
possesso, il pene,che oggi sembra non dover servire quasi più a niente.
Diciamolo ancora più chiaramente: con la democrazia il Potere è stato
tolto dalle mani dei singoli uomini; con la parità fra uomo e donna, ai
maschi è stata tolta la suprema- zia di cui godevano all’interno
della famiglia; con la scuola di Stato e l’intervento della
Magistratura in tutti i casi controversi, al padre è stata tolta quasi
tutta l’autorità che possedeva sui figli; con il pacifismo e l’Unione
europea è stato negato il diritto a riconoscersi in una patria e in un
territorio da difendere... Insomma, all'uomo-maschio, in quanto maschio,
non è rimasto quasi nulla, salvo la droga del calcio con la quale si
tenta di convincerlo che combatte ancora per qualche cosa. Ma l’aggressività
esiste, è costitutiva dell’organismo biologico che, se non l’adopera,
muore. Per questo i giovani si ammazzano e ammazzano con i motorini, con
le automobili, diventate ormai l’unico strumento di aggressione che
hanno diritto di usare. E' urgente riflettere sul problema dell’identi-tà
maschile. urgente riflettere sulla necessità dell'autostima cui nessun
individuo può rinunciare; ma soprattutto non vi può rinunciare il
maschio per il quale la potenza sessuale e il potere familiare e sociale
sono stati sempre strettamente interconnessi. soprattutto urgente
riflettere sulla capacità di «plagio» che le notizie quotidiane e
spettacolari dei telegiornali sugli omicidi possiedono in forma molto
superiore di quanto i giornalisti forse non suppongono. La televisione
è strumento di "socializzazione" sempre, sia nel bene che nel
male. E per socializzazione si intende che: «Se qualcuno l’ha fatto,
lo posso fare anch’io». Bisogna sempre pensare che fra i milioni di
persone che assistono ai telegiornali, ci sono anche quelle
psicologicamente più fragili e in situazioni personali in qualche modo
analoghe a quelle di cui si parla. E' proprio a queste persone che l’informazione
dà la spinta, la suggestione sufficiente a compiere un gesto che forse
da sole non avrebbero mai compiuto. Spetta ai giornalisti, al loro senso
di responsabilità, trovare una soluzione adeguata a questo problema,
che nessuna normativa di legge può trovare.
Ida Magli
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