CHI ERA IDA MAGLI?
RICORDI E PENSIERI DI
CHI L'HA CONOSCIUTA
L'imperdonabile antropologa di noi selvaggi
di Piero Padovan
Difficile scrivere di Ida Magli col dolore per sua scomparsa che gonfia
gli occhi e il cuore. Difficile decidermi a elaborare quello che per
me - con un contatto quasi quotidiano per via della gestione di questo
sito “italianiliberi” - è un groviglio luttuoso intellettuale e
personale.
In quanto dentista so di essere stato un allievo sui generis.
Ida Magli l’ho incontrata nei primi anni ‘90 dopo gli studi
universitari, in occasione di una conferenza. All’epoca conoscevo
l’antropologia evolutiva per aver divorato libri e articoli
sull’argomento, cercando risposte sull’Uomo nell’epoca della sua
differenziazione specifica. Ma il termine “culturale” lo riconducevo
semplicemente ai primi manufatti di antichi cacciatori-raccoglitori, o
al volume dalle grandi foto a colori “Popoli primitivi oggi”
che sfogliavo da bambino nella libreria di casa: sentirla parlare,
ascoltare dalla sua voce sicura la logica dei concetti assoluti del
Sacro e del Potere, intuirne il senso e la portata, è stato come
saltare da fermo su un’automobile a 200 Km orari.
Non scesi più, e Ida Magli - che come riportano nei loro ricordi le sue
allieve e i suoi allievi è sempre stata incline alla dialettica e al
confronto - mi gratificò di interessanti conversazioni, e ben presto
della sua amicizia, incuriosita forse dal mio approccio alla sua
materia.
Il problema dell’antropologia magliana, come pure delle automobili
superveloci e delle astronavi, è che una volta saliti a bordo il mondo
cui eravamo abituati, il nostro mondo, appare diverso da prima. Lasciai
indietro australopitecini e reperti dentari fossili e scelsi di leggere
per primo “Sulla dignità della donna”.
Fu per me profondamente traumatico, non solo perché si trattava di una
critica senza precedenti e senza sconti a un Papa vivente, ma per il
modo in cui i simboli del Sacro potevano essere smontati. Procedevo
nella lettura con la consapevolezza di trovare in ogni pagina una
spiegazione, una rivelazione, una risposta a domande mai neanche
espresse. Spesso chiudevo il piccolo libro cercando umano conforto
nello sguardo dell’immagine di copertina… sentivo crollare i pilastri
della mia sicurezza inconscia, quelli che avevo cercato fino allora di
puntellare. Lo confessai a Ida, che mi confortò: “Vedi Piero, se tu non
avessi trovato il coraggio di guardare, avresti continuato a star male
senza sapere il perché”.
Probabilmente in questa frase c’è anche la sua personale motivazione per tutta una vita di studio. C'è la sua esigenza
- ancora prima che scelta tremendamente coraggiosa - di capire e
rivelare, superando con l’intelligenza e la logica qualsiasi tipo di
condizionamento. Una “psico-logica” di un livello sovraindividuale, culturale,
appunto, in grado di far luce su meccanismi sociali e dinamiche
potentissime che regolano - e talvolta schiacciano - le nostre vite,
nell’invisibilità dell’ovvio: se non se ne prende coscienza, o peggio,
si nega, non c’è psicanalisi che possa funzionare.
Lessi tutti i suoi libri e quelli che mi indicò di altri autori, e
capii quanto il mondo dell’antropologia culturale fosse vasto e aperto
a infinite interconnessioni. Partendo dalla paleoantropologia studia la
storia dell’umanità in ogni epoca e continente. Le scienze mediche
dall’anatomia alla neuropsichiatria, alla genetica. E psicologia,
sociologia, filosofia, epistemologia. Religioni, arte, letteratura,
linguistica, politica, economia. Perché tutto è emanazione delle diverse culture umane. E tutto torna, in retroazione, a influenzarle…
Periodicamente Ida si concentrava su un’idea in particolare - anche se
è identificabile una sequenza logica nella sua produzione intellettuale
- che dava luogo a un libro dopo mesi di durissimo lavoro e di
isolamento, senza nessun riguardo per la propria salute. Ebbi modo di
vederla all’opera per la sua “Storia delle donne” (Storia laica delle donne religiose)
perché mi chiese di aiutarla per la stesura dell’indice analitico, cui
teneva moltissimo come guida di fruizione dei contenuti. E anche come
coautore per un libro sull’antropologia dei denti, l’ultimo dei tabù,
cui lavorammo a lungo, ma che è rimasto incompiuto.
Nel soggiorno del suo piccolo attico-osservatorio di Roma, silenzioso e
luminosissimo, il lungo tavolo da lavoro in legno, vicino al
pianoforte, era occupato da pile di fogli, in un disordine solo
apparente. Il ritmo era continuo e di totale, assoluta, concentrazione,
in un concetto di tempo che
solo un musicista può interpretare in maniera così rigorosa e piena
(qualità molto apprezzata dai suoi intervistatori televisivi e
radiofonici, nonché dell’editoria e dalla stampa). Non c’erano pause
caffè - la gastronomia era l’ultimo degli aspetti culturali che la
interessasse - ma ogni tanto si bloccava e, preoccupata, non mancava di
chiedermi se avessi bisogno di qualcosa, con quell’aria da antropologo
(o da alieno) che prende improvvisamente coscienza di una necessità di
un suo esotico interlocutore. E concordavamo per due bicchieri d’acqua,
in una pausa essenziale di rispettosa cerimonialità.
Negli anni ho visto avvicinare Ida Magli da persone diversissime,
sicuramente disorientate, non sapendo come classificarla, ma attratte
come falene dalla luce delle idee nuove al di fuori degli schemi.
Artisti, scrittori, giornalisti, industriali, medici, politici di
destra, politici di sinistra, donne, uomini, omosessuali, stranieri di
ogni nazionalità, preti cattolici, pornostar… Tutti le si sedevano
accanto a turno, rialzandosi più “pettinati”, così l’espressione tra le
più divertenti che io ricordi.
Ma, come dicevo, non è facile fare gli antropologi in patria e
coniugare a questo la propria vita, e non a caso la prima e l’unica che
lo abbia fatto, finora, è stata Ida Magli. Anche tra i suoi più
innamorati estimatori e allievi, molti hanno finito per stabilizzarsi
su un orbitale che permettesse loro di non perderla di vista, restando
a distanza di sicurezza per non essere dilaniati tra scelte di comodo e
visioni senza ritorno.
In un mondo ancora evidentemente traumatizzato da Darwin, in cui l’Uomo bianco ha cercato di continuare a vedersi altro,
studiando i selvaggi "da lontano", Ida Magli finalmente ci dice che è arrivato il
momento di essere obiettivi, invitandoci a guardare noi stessi in modo
più cosciente e onesto. Tutt’altro che “razzista”, quindi, non
un’iconoclasta, non una Cassandra, non una “polemista” e neanche
un’anticlericale: basta leggere i titoli dei suoi libri, come “Omaggio
agli italiani”, “Difendere l’Italia”, “Per una rivoluzione Italiana”,
tra gli altri. Basta averla sentita parlare almeno una volta per capire
il suo slancio propositivo e la sua mai esaurita speranza e ricerca di
soluzioni di vita e rispetto per ogni diversità, purché non distruttiva
di altre culture.
In questo senso scrisse “Contro l’Europa. Tutto quello che non vi hanno detto di Maastricht”.
E non le bastò l’impegno teorico, volle fortemente fondare con noi,
all’inizio cinque o sei tra amici e allievi, un “movimento
politico-culturale” che neanche portasse il suo nome, ma che sperava
potesse costituire un primo nucleo di accrescimento di ritrovata
fiducia: Italiani Liberi. Pochi sanno che nella sua ansia di “fare
qualcosa” arrivò perfino a proporre un nuovo partito, il “Partito degli
Italiani” che ebbe un nome e uno statuto, e male si rassegnò
all’impossibilità pratica di lanciarlo effettivamente, in una
democrazia dove senza fondi e cordate è impossibile organizzare una
resistenza civile.
“Cancellare l’appartenenza a un
determinato territorio, e all'identità di gruppo che questo comporta,
significa cancellare il senso. Operazione di una violenza inaudita che
nessuno scopo può giustificare”
Il rammarico più grande è pensare Ida Magli al di fuori dell’Università,
e che l’Italia le abbia riservato un isolamento doloso, più preoccupata
di compiere nell’Ue la distruzione a tavolino di se stessa - e delle
persone su cui è fondata - che di trovare il coraggio di continuare a
produrre culturalmente, rilanciandosi.
Un'ultima frase che mi piace ricordare di lei è degli ultimi giorni,
quando, sebbene abbandonata dalle sue forze, potendo muovere appena le
mani, provò a dirci: “Che peccato, proprio adesso che stavo vivendo un
momento così creativo! Se poteste andare a prendere il mio portatile
potrei continuare a lavorare!”
Il paese Italia, è vero, non la ricorderà, ma la sua opera ha segnato
una traccia, che nel momento stesso in cui è stata descritta è
sicuramente entrata a far parte della sensibilità e della coscienza di
molti.
Piero Padovan
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