EDITORIALI


Gay pride di morte


di Rosaria Impenna

ItalianiLiberi | 06.08.2015


  Sono sempre più numerose le città che nel periodo estivo si tingono di sgargianti costumi, piume colorate e festosi schiamazzi per l’appuntamento che vede sfilare l’orgoglio omosessuale. Rituale forse ormai svilito, rispetto alle autentiche rivendicazioni di libertà nei confronti della struttura familiare borghese, che ispiravano il primo movimento. Le molteplici istanze di rottura dai ruoli sociali e dalla famiglia patriarcale che li legittimava, entusiasmavano i giovani che vedevano coagulare in determinate manifestazioni vitali ribellioni. Negli ultimi anni, viceversa, le richieste del diritto al matrimonio, alle adozioni e al riconoscimento giuridico della famiglia omosessuale, ci pare contrastino con le proposte che appunto, negli anni ’70 sia il femminismo che i movimenti di liberazione sessuale dichiaravano per abbattere qualsiasi modello di istituzione matrimoniale e familiare. Istituzioni che storicamente nascono per l’esclusivo scopo di regolamentare la continuità del gruppo, non per altro. Eppure, nonostante tali convinzioni siano in noi sempre più motivate, siamo rimasti stupiti e oltremodo addolorati dalla morte della sedicenne israeliana Shira Banki, accoltellata, insieme ad altre sei persone, al gay pride di Gerusalemme svoltosi giovedì 30 luglio e deceduta la domenica successiva. Yishai Schlisse, l’omicida, appartenente al mondo ultra-ortodosso ebraico, era uscito da pochi giorni di prigione dopo avere scontato una pena di dieci anni per aver accoltellato cinque persone al gay pride del 2005, che si tenne sempre nella Città Santa. Il fanatico accoltellatore si rifiuta di riconoscere l’autorità del tribunale di Israele, aiutato in questo dalle posizioni di alcuni rabbini, i quali invitano da tempo i giovani a rigettare il servizio militare. Nelle stesse ore in cui Shira Banki veniva colpita da Schlisse al grido di “Siete impuri”, alcune bottiglie molotov, lanciate dentro una casa palestinese di Duma, nei pressi di Nablus, nei territori occupati della Cisgiordania, uccidevano Alì, un bambino palestinese di 18 mesi. Sui muri anneriti dal fuoco, a Duma, restano ben leggibili le rivendicazioni scritte in ebraico: “Vendetta. Viva il Re Messia. Il prezzo da pagare”. A seguito di questi agghiaccianti fatti, il governo di Gerusalemme, guidato dal premier Benjamin Netanyahu, ha qualificato come “terroristi”, gli estremisti ebrei e le varie frange religioso-messianiche che ne fanno parte. Il ministro della difesa, Moshe Ya’ alon, per ribadire la nuova linea dura contro azioni così sconcertanti, ha autorizzato “la detenzione amministrativa” sia per i leader dei gruppi dell’estrema destra ebraica che per i militanti sospetti, procedure finora adottate “soltanto” contro i presunti terroristi palestinesi, ha tenuto a precisare. Tra gli intellettuali israeliani non sono invece mancate immediate, nette parole di condanna al governo Netanyahu, considerato “una coalizione per la colonizzazione e l’apartheid”.  Per lo scrittore David Grossman, è difficile non cogliere “un nesso tra l’occupazione della Cisgiordania, che dura da quarantotto anni e la realtà buia e fanatica creatasi ai margini della coscienza israeliana”. Analogamente, Etger Keret sostiene che da parte del governo in carica esiste una preoccupante difesa dei coloni, la cui  popolazione sfiora appena il quattro per cento rispetto alla totalità di quella israeliana, ma la loro rappresentanza nel Kensset, è di ben cinque volte tanto. Lo scrittore rivela che proprio all’interno di tale clima di “protezione” è nato un fenomeno finora inusitato, il tentativo di distruggere chiese cristiane da parte di fanatici ebrei. Come in una sorta di eco, Grossman dichiara: “Sia il primo ministro che i suoi sostenitori si rifiutano di capire che nella coscienza del conquistatore dopo quasi cinquant’anni di occupazione dei territori, si è cristallizzata una determinata visione del mondo”.

Concordare con le posizioni dei due scrittori e di altri intellettuali israeliani ad essi vicini, è ovvio e scontato. Ma nello stesso tempo, con l’amarezza nel cuore per la ragazza di appena sedici anni assassinata, e per Alì, vittima a diciotto mesi della “medesima” mano criminale, ci chiediamo se l’allarme lanciato quasi coralmente dagli intellettuali, all’attuale governo, possa bastare.  Se le loro denunce, attente a indicare analisi certamente attendibili, per descrivere una realtà che nei suoi gesti di irriconoscibile ferocia, pare spiazzare il mondo intero, siano sufficienti. “Giorno dopo giorno – puntualizza Grossman – escono allo scoperto forze brutali e fanatiche, oscure ed ermetiche nel loro estremismo. Forze che si esaltano alla fiamma di una fede religiosa e nazionalista”. Ma proprio a seguito di queste oneste ammissioni, crediamo sia difficile possa bastare un determinato atteggiamento del governo per cancellare sentimenti che evidentemente connotano le profonde convinzioni di un popolo di cui i coloni, pur rappresentandone una sparuta minoranza, fanno parte. La scienza antropologica ci ricorda che un popolo è un io e come tale si forgia attraverso processi che ne qualificano i variegati modi di porsi rispetto alla complessità del contesto, a sua volta interiorizzato dal singolo, attraverso insiemi di prescrizioni, dettami, di quel tessuto culturale che nel suo svolgersi va a formare un continuum invariato. Tale apparato di dati, quasi similmente a quanto avviene per una legge fisica, viene trasmesso da un determinato gruppo agli individui che lo compongono in base al principio della personalità di base. I coloni, a tal proposito, rappresentano sicuramente la parte meno numerosa della popolazione ebraica e sicuramente, come sostengono molti intellettuali, saranno guardati con inaccettabile clemenza dall’attuale governo, ma è fuor di dubbio che di quel determinato gruppo esprimono istanze, richieste e rivendicazioni. Concordiamo con Grossman, nel vedere in costoro “le linee più radicali e talvolta più folli”, ma pur sempre appartenenti ad una comunità che per la sua particolarissima situazione geografica, politica e sociale, contiene profonde, insanabili frizioni e contrasti nel proprio tessuto culturale. Grossman è un intellettuale raffinato e onesto per non cogliere che il governo Netanyahu non è in grado di risolvere solo attraverso “nuove forme di dialogo con i palestinesi”, l’immenso problema riconducibile all’occupazione, causa di quell’instabilità politica che va indubbiamente ad alimentare un estremismo sempre più incontrollato. Lo ha spiegato bene l’antropologa Ida Magli, “Terra promessa”, sta a significare che giorno dopo giorno, momento dopo momento, incessantemente, è necessario lottare per meritare quel certo bene, dato che la “promessa”, a differenza del “dono”, contiene meccanismi che la rendono una condizione simile all’attesa, il cui anelito di possesso si rinnova in un processo in-finito. La conquista di una promessa, il suo raggiungimento, non sarà mai rappresentato dalla condizione analoga all’appagamento dell’oggetto tanto desiderato, la quiete che connota il dono ricevuto è stasi di felicità chiusa, rispetto alla conquista insita nella promessa e alla lotta inesorabile che s’innesca per raggiungerla.

Ma se la ragione di queste parole è mossa dal dolore per la scomparsa della sedicenne Shira Banki, vorremmo precisare che non ci consola la decisione presa dalla famiglia, di donare gli organi della ragazza “a chiunque ne abbia bisogno”. Pensiamo viceversa, che il suo sacrificio sarà purtroppo vano. Nei medesimi giorni della triste vicenda, tra le molte, ci ha allarmato una notizia solo all’apparenza priva di nessi con quanto abbiamo fin qui raccontato. A seguito del viaggio in Africa del presidente Barack Obama, Malik Obama, suo fratellastro, intervistato dalla radio Milele FM, nel commentare il viaggio nel Continente del più noto fratello, non gli ha lesinato dure e sferzanti critiche. Malik ha dichiarato: “Mio fratello è diventato un altro, quello che viveva con me non è lo stesso Barack che oggi è presidente degli Stati Uniti”. A suo giudizio il presidente americano non è più lo stesso “perché non pensa alla sua comunità, i neri vengono ingiustamente uccisi e lui non muove un dito. In Africa, lui arma i gruppi terroristici, ha partecipato alla caduta di Gheddafi”. E nel chiudere l’intervista, Malik Obama ha accusato il Presidente della continua insistenza di parlare contro le leggi anti-gay locali, che Barack fa, ogni volta che visita l’Africa. “Quando si parla dell’Africa – dichiara Malik – ci chiede di essere dalla parte del popolo di Lot. È così ignorante al punto di non sapere che, se nostro padre avesse fatto parte di quel popolo, lui stesso non sarebbe nato”.

Siamo convinti che gli imperativi insiti nell’assetto dottrinario dell’Antico Testamento, ripresi in modo pressoché invariato dal Corano, pongano con una consapevolezza sempre maggiore e drammatica, la non accidentalità della scomparsa di Shira Banki.                      

Rosaria Impenna
6 agosto 2015




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