Bioetica

 

Chi ha paura del confronto

Rubrica "LETTERE" a la Professione
numero 2, Feb 2001

 

Signor direttore,
voglio veramente farLe i miei complimenti per l'articolo "Nessuna paura del confronto", apparso sul numero 10/2000 e per come Ella ha gestito gli articoli e le lettere dei colleghi, apparsi sul problema del trapianto di organi. Ho apprezzato anche molto la lettera del collega di Bologna, Raffaele Pellizzi, che testimonia un atteggiamento critico educato, anche se non condivido affato la sua convinzione che il trapianto d'organo sia un'insostituibile misura terapeutica, né che la legge del 1° aprile 1999 n.91 (ed anche le precedenti in materia di trapianti) sia accettabile dal punto di vista etico. Essa nasce con l'intento di aumentare il numero di donatori d'organi, considerado quest'obiettivo, proposto dalla scienza medica, condivisibile da tutti dal punto di vista etico, perlomeno da tutti i medici specialisti che possono esservi coinvolti (visto che il legislatore non ha preso in considerazione l'obiezione di coscienza). Forse non tutti sanno che nell'agosto del 1968 alla HArvard Medical School di Boston, fu istituita un'apposita commissione per stabilire i criteri della "morte cerebrale", perché da parte di alcuni medici si ritenne che "la società non può permettersi di gettar via tessuti ed organi di un paziente irrimediabilmente privo di coscienza, poiché essi sono assolutamente necessari per lo studio e la sperimentazione..."

(Hans Jonas "Tecnica, medicina ed etica" Biblioteca Einaudi, 1997, pag. 172).

E' curioso che proprio nel reparto di Anestesia e Rianimazione della medesima Harvard Medical School di Boston, 24 anni dopo, come giustamente riporta il Prof. Massimo Bondì di Roma, tali criteri per la dedinizione di morte cerebrale siano stati giudicati insufficienti a garantire la certezza dell'irreversibilità delle lesioni cerebrali. La morte cerebrale è dunque uno stato di coma, quasi certamente irreversibile (se diamo credito ai lavori della Harvard Medical School del 1992), che quindi non può essere considerato equivalente allo stato di morte dell'individuo. Appare chiaro che si è deciso di identificarlo con lo stato di morte, per procedere legalmente all'espianto di organi da cadavere. (Ma è ovvio che di cadavere non si tratta! Tant'è che nelle leggi italiane del 1993 in poi non si parla più di espianto da "cadavere", ma da "soggetto di cui sia stata accertata la morte ai sensi della legge 29 dicembre 1993 n.578). Dal punto di vista etico ciò non è accettabile: è accettabile che la legge chieda al cittadino un consenso di donazione dei propri organi, qualora si venga a trovare in stato di coma ritenuto irreversibile. Questo sarebbe scientificamente corretto e moralmente accettabile, poiché basato sulla consapevolezza di un gesto sacrificale. Altrimenti, "noi" medici siamo forse anche inconsapevoli, ma sicuramente "complici, coatti dei crimini di stato". Questo è il titolo di un pregevole articolo comparso su "il Giornale" domenica 21 gennaio 2001, firmato Ida Magli, che qui di seguito in sintesi riporto.

"Come medici che hanno nel cuore il giuramento di Ippocrate (ma quanti colleghi l'hanno veramente nelo cuore? Molti, credo, non l'abbiano neanche mai letto!) dobbiamo veramente batterci per non andare non soltanto contro la natura, come oggi le biotecnologie ci inducono a fare, ma soprattutto contro la coscienza dell'uomo, che nessuna coscienza collettiva, nessun sistema di potere può mettere a tacere".

Guido Cantamessa

(Bergamo)

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"Meditiamo" sui trapianti

Il trapianto d'organo è un indiscutibile progresso della scienza medica e francamente non riesco a trovare argomenti che ne possano sminuire la valenza nel panorama delle possibilità di cura che si possono offrire al malato. Non voglio entrare nella polemica ma semplicemente aggiungere alla discussione alcune considerazioni che non ho ancora sentito o letto da altri colleghi.

La prima: l'assorbimento di energie economiche, strumentali e personali che la trapiantologia impone è formidabile, a fronte di un numero decisamente esiguo di pazienti eleggibili per una terapia del genere; a nessuno è mai venuto in mente di pensare che qualche problema morale possa effettivamente esistere nel momento in cui si sceglie di investire tanto per pochi. Non c'è il rischio di far poi mancare preziose risorse per la moltitudine di pazienti "comuni" cui viene lesinato il quotidiano fabbisogno di risorse? Detta in termini più espliciti, quanto è giustificato aprire nuovi centri di trapiantologia se non aumenta proporzionalmente il numero di donatori? Sì, perché, i candidati al trapianto possiamo immaginare che continuino a crescere. Seconda: chi è in lista di attesa è già a conoscenza della sua sentenza di morte e, grazie all'insopprimibile istinto di conservazione, gli sarà certamente perdonato di desiderare che arrivi l'organo adatto a lui; sempre per essere estremamente espliciti, gli sarà perdonato di desiderare che un suo simile si sbrighi a morire, affinché lui viva? Non siamo forse troppo vicini a quel confine oltre il quale l'umanità dell'individuo, più o meno consapevolmente, sconfina nella bestialità della legge della giungla (mors tua vita mea?) Mi pare ci sia spazio per profonde meditazioni.

Angelo Rosi

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