EDITORIALI
Pompei e i governanti italiani
di Rosaria Impenna
ItalianiLiberi | 19.10.2014
Siamo
rimasti profondamente turbati, noi, poveri italiani innamorati
dell’Italia, dalla notizia riportata dal quotidiano Il Messaggero
qualche giorno fa, inerente “L’offerta milionaria, avanzata
dall’Università di Oxford, per la mappa segreta di Pompei”. La vicenda,
sorprendente e insolita, riguarda circostanze che possiamo far
risalire in gran parte all’archeologo di fama internazionale Amedeo
Maiuri (Veroli 1886, Napoli 1963), e alla passione con la quale si è
dedicato agli scavi di Ercolano, Campi Flegrei, Cuma, Capri, Pompei. È
proprio a Pompei che ha dedicato la massima attenzione svolgendovi una
molteplicità di lavori partendo da nuovi scavi fino al restauro delle
strutture già esistenti. Al termine dei suoi interventi solo un terzo
della città rimaneva non scavato. Parallelamente al lavoro concreto
Maiuri prendeva degli appunti e faceva delle ipotesi sulla parte del
sito ancora interrata, inclusa una mappa delle Domus, mappa che
non conosciamo perché rimasta “segreta”. Considerando che l’intero sito
si estende su 66 ettari, dei quali sono stati esplorati soltanto due
terzi, non è difficile intuire che l’area nasconde ancora numerosi
ambienti e relativi oggetti preziosi sepolti nelle Domus.
Il motivo per il quale Maiuri e la sua preziosa mappa sono diventati
argomento all’ordine del giorno è quello cui in Italia siamo abituati:
la scarsissima tutela del patrimonio culturale e l’ignobile
giustificazione della mancanza di fondi. La preziosa mappa di Maiuri,
infatti, fa parte del fondo privato dell’archeologo, comprensivo di ben
quattromila volumi antichi, fino ad oggi situato al secondo piano del
palazzo comunale di Pompei che dovrà però lasciare al più presto gli
attuali locali. La notizia ha immediatamente suscitato allarme tra gli
archeologi dell’Università Suor Orsola Benincasa quando il rettore,
Professor Umberto Pappalardo, “custode” del Fondo Maiuri, si è visto
giungere la lettera firmata dal sindaco di Pompei, Ferdinando Uliano,
in cui si notifica al rettore dell’Università che i quattromila volumi
devono lasciare i locali comunali entro breve. Il rettore è a sua volta
consapevole che l’Università Benincasa non possiede locali adeguati per
“ospitare” l’enorme e rarissimo Fondo librario Maiuri. Questa è la
ragione per cui con eccezionale “tempismo” l’Università di Oxford ha
avanzato la proposta di acquisto del patrimonio culturale ed economico
dei libri di Amedeo Maiuri per “salvarlo dall’indifferenza della
politica italiana”. D’altronde, gli Inglesi conoscono bene il valore di
tali ricchezze, il British Museum, ad esempio, ha incassato nel tempo
circa undici milioni esponendo i tesori, mai visti in Italia,
provenienti proprio dagli scavi di Pompei. Ovviamente, i colleghi del
Professor Pappalardo intendono ripetere un’operazione analoga
attraverso la proposta di acquistare i libri e gli ancor più preziosi
appunti - “consapevoli che il sapere del grande archeologo non ha
prezzo e pur di possederlo siamo disposti a pagare qualsiasi cifra” -
hanno ribadito. La loro idea è di collocare la collezione in uno degli
splendidi edifici universitari e creare intorno alla sua esposizione un
“prestigioso interesse che porterebbe ad incassare cifre esorbitanti”.
Ma gli archeologi di Oxford non nascondono la soddisfazione di poter
avere in mano soprattutto gli scritti di Maiuri, frutto di scrupolosi
studi, calcoli e ipotesi originalissime, al fine di finanziare una
campagna di scavi a Pompei e prendersi giustamente il merito di nuove,
importanti scoperte. E sanno bene che in tali scritti è possibile
trovare anche notizie riconducibili ai misteri di Ercolano, Cuma,
Velia, Capri, Ischia e Capua. La notizia solo in parte consolante è che
l’Università italiana non sembra per il momento intenzionata a cedere
un patrimonio così prezioso; se però non dovesse riuscire a collocarlo
in una dimora adeguata e trovare fondi per un’ipotetica
ristrutturazione degli spazi eventualmente individuati, potrebbe
prendere in considerazione l’invitante proposta dell’Università inglese.
Siamo naturalmente sconcertati e addolorati all’ipotesi che il
prestigioso archivio possa traslocare, mentre dobbiamo come al solito
rassegnarci al fatto che una simile gara per possederlo non possa,
anche volendo, scatenarsi tra gli Atenei e le Istituzioni italiane che
sono sempre al limite della sopravvivenza per mancanza di mezzi.
Troppo spesso assistiamo impotenti a un’incuria che rasenta il
disprezzo da parte di chi in generale sovrintende al raro patrimonio
artistico e culturale prodotto nei secoli in Italia, tanto che sorge
spontaneo ipotizzare che i governanti, manifestando particolare
attenzione nel trascurare monumenti, opere e ricchezze culturali di
rilievo, intendano esprimere palese fastidio per le magnificenze
prodotte dagli Italiani. E constatando che i tesori maggiormente
soggetti all’abbandono sono quelli che racchiudono un più alto valore,
non stupisce che il sito archeologico di Pompei rappresenti una sorta
di primato per il modo in cui le Istituzioni chiamate ad amministrarlo
riescono a trascurarlo.
A testimoniare le nostre amarezze nel tempo invariate, tanto da pensare
a una sorta di dannata costante per gli Italiani, ci viene in soccorso
lo sfogo di Giacomo Leopardi, sia nell’opera poetica,
“Paralipomeni della Batracomiomachia”, sia nello splendido trattato,
“Dei costumi degli Italiani”. Proprio riguardo a Ercolano e soprattutto
a Pompei, in questo sapiente saggio Leopardi analizza con tale lucidità
i comportamenti degli Italiani, in special modo della classe dirigente
politica e culturale, che le sue osservazioni diventano un patrimonio
prezioso per considerazioni attualissime. Il Nostro, “Assaggiatore”,
cioè “Saggiatore”, in quanto “Accertatore” di verità, proprio di fronte
alla gretta gestione delle antichità di Ercolano e Pompei, lancia
addirittura un proclama di stima per le altre Nazioni d’Europa, capaci
di “amare” il proprio passato! E sembra di ascoltare lo straziante
dolore del poeta mentre osserva come sotto Ercolano, il nuovo borgo di
Resina “d’ignobili case e di taverne copre la nobilissima ruina”, e non
di destino si tratta, ma di ben individuabili colpe, precisa in una
compiutissima analisi. Amara rabbia la cui alta voce diviene sublime
denuncia quando afferma: “Certo se un suol germanico o britannio/
queste ruine nostre ricoprisse/ di faci a visitar l’antico danno/ più
non bisogneria ch’uom si servisse/ e d’ogni spesa in onta e d’ogni
affanno/ Pompei, ch’ad ugual sorte il fato addisse/ all’aspetto del Sol
tornata ancora/ tutta, e non pur sì poca parte fora/ Vergogna
sempiterna e vitupero/ d’Italia non dirò, ma di chi prezza/ disonesto
tesor più che il mistero/ dell’aurea antichità porre in chiarezza/ e
riscossa di terra allo straniero/ mostrare ancor l’Italica grandezza/
Lor sia data dal ciel giusta mercede/ se pur ciò indarno al ciel si
chiede”.
Nelle due opere citate, in Leopardi è forte più che altrove la
convinzione che una colpa, assai più di un destino, hanno distrutto in
Italia ogni “alto sentire”, origine d’ogni “ben sentire” e “ben
vivere”. Per questo non sfugge al nostro “Saggiatore” che più del piano
“militare” è viceversa il piano “civile e culturale” quello
maggiormente colpevole della neghittosità italiana. Considerando che
soprattutto oggi il potere e il denaro non sono nelle istituzioni di
cultura ma nei politici, siano essi comunali, regionali e statali, è
l’intera cultura italiana ad essere prigioniera di una condizione
d’indifferenza e di scettico cinismo. Tradizione non solo antica, ma
addirittura vecchia, per realizzare invece qualsiasi modernità, ci
ricorda Leopardi, “occorre un eroismo di tipo diverso, simile a quello
antico, quando il cuore era ancora qualcosa”.
Rosaria Impenna
Roma, 19 ottobre 2014
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