EDITORIALI


Maometto e la violenza

di Ida Magli
Il Giornale, allegato "Non perdiamo la testa" | 18.10.2014


  L'Italia, l’Europa, l’Occidente, sono sorpresi e sconvolti dall’assassinio messo in atto nei confronti di persone che non hanno fatto alcun male, ma che sono state prese prigioniere e condannate a morte perché appartenenti al mondo degli “Infedeli”. L’uccisione sacrificale avviene per sgozzamento (wa’d) con successiva decapitazione fino dal tempo dei sacrifici degli Arabi preislamici e confermata dal Corano: “Io getterò il terrore nel cuore di quelli che non credono e voi colpiteli sulle nuche” 1. Questo punto – il significato sacrificale dell’uccisione degli infedeli - non è stato preso in considerazione dai nostri politici e commentatori, mentre si tratta di un dato fondamentale non soltanto per cercare di capire gli avvenimenti, ma per studiare una forma di “risposta” fornita di logica. L’assoluta “ritualità” dello scenario che ci è stato presentato in video al momento dell’uccisione, è proprio ciò che l’ha reso terribilmente macabro, insopportabile ai nostri occhi: la veste apposita della vittima, l’inginocchiamento, la frontalità rispetto a coloro per i quali viene sacrificata, la presenza incombente del sacrificatore, sono tutti segni e simboli costitutivi del rito. Noi però siamo da lungo tempo disabituati al linguaggio del Sacro e alla sua Potenza per cui ne siamo stati colpiti senza comprenderlo.

 “Barbarie! Delirio di fanatici!” hanno esclamato concordemente i commentatori non riuscendo a credere, dato il tono minore che le religioni hanno ormai assunto negli accadimenti della storia, che all’improvviso si rivelino attori di una guerra spietata proprio dei “credenti”, dei fedeli di Allah o di qualsiasi altro Dio. Non ci sembra possibile che sia la religione a muoverli e di fatto siamo disarmati: non abbiamo neanche cominciato a cercare di capire, tanto meno a “ragionare”. Barbarie, certo: si tratta di gesti esclusi dalla moderna convivenza civile fra gli individui e fra le nazioni. È la nostra più alta conquista morale la consapevolezza e l’affermazione che nessun uomo può essere “strumento”. Ci ripugna talmente l’idea del sacrificio umano che  vorremmo quasi credere che non sia mai esistito. Ci piacerebbe dimenticare che perfino le guerre sono state causate molte volte nell’antichità dal bisogno di catturare dei prigionieri da sacrificare al proprio Dio.

 I giornalisti, esperti come sono delle quotidiane follie di cui è capace ogni essere umano, si aggrappano all’idea del “fanatismo” come unica spiegazione di una violenza inammissibile, mentre Obama non ha concesso né a se stesso né ai nemici un solo minuto di riflessione prima di “rispondere” a modo suo: con le bombe. Errore gravissimo, è evidente. Studiare il nemico prima di muoversi, prendere tempo con lunghe trattative, è la lezione fondamentale che ha dato l’autore del De Bello Gallico a tutti i comandanti di eserciti che si sono succeduti dall’epoca romana fino ad oggi. Ma soprattutto errore gravissimo per chiunque abbia a che fare con la mentalità araba, mentalità che è l’opposto di quella americana: lenta, aggrovigliata, sempre alla ricerca di astuzie e di sottigliezze che adombrino per ogni problema almeno dieci soluzioni; mentalità che del resto si rispecchia chiaramente nel Corano. Maometto è un arabo  ed è a lui che guardano i suoi credenti essendo Allah un Dio lontanissimo, al quale è impossibile rivolgersi direttamente e neppure pregarlo se non insieme al Profeta. L’obbedienza alla volontà dell’unico Dio-Allah coincide con l’obbedienza al Profeta il quale conosce questa volontà perché gli è stata rivelata con il Corano. Dal momento di questa rivelazione il termine “profeta”, usato largamente in precedenza durante tutta la storia ebraica e in quella cristiana, assume la qualità di “unico” e si identifica con Maometto. L’unicità del Dio è la stessa unicità del suo Profeta. Maometto insomma è il padrone assoluto del mondo islamico e ha sistemato alla perfezione i suoi rapporti tanto con Dio quanto con gli uomini. L’Occidente dovrebbe tenere sempre presente questa caratteristica, che fa dell’Islamismo una religione diversa da qualsiasi altra; diversa soprattutto (per quanto l’opinione pubblica sia convinta del contrario) dall’Ebraismo e dal  Cristianesimo. Diciamo meglio: l’Occidente deve guardare all’uomo-Maometto e non alla religione che ha costruito, perché è a quest’uomo che i suoi fedeli obbediscono.

 Se diamo un’occhiata ai pochi dati certi, o quasi certi, della biografia di Maometto, vediamo chiaramente che corrispondono ai costumi delle tribù nomadi, Arabe e Beduine, sparse quasi ovunque nel sesto e settimo secolo d.C. negli immensi deserti della Siria. Prima di tutto l’abitudine a non radicarsi in un territorio, tipica del nomadismo, combattendo di continuo contro le tribù vicine per appropriarsi dei loro terreni e di tutto ciò che di meglio possiedono: cammelli, uomini, donne, bambini, che vengono aggregati al gruppo in qualità di schiavi e costretti ad abbracciare la fede dei loro padroni. Per Maometto il nomadismo e il bisogno di razzia si trasformano nello strumento più utile per imporre con la guerra la sua religione presso le popolazioni che conquista. Non è difficile. A parte l’estrema aggressività dei suoi guerrieri e il valore del bottino sul quale contano (non c’è nessun pericolo di rimanerne privi in quanto spetta a Maometto, che fa le divisioni, la quinta parte di tutto ciò che viene conquistato), Maometto ha scelto i primi cinque libri dell’Antico Testamento come base del Corano. Sono i più antichi, rispondenti al pensiero dei pastori nomadi dell’epoca di Mosè, con la loro giustizia del taglione, il primato del capo famiglia su tutto il gruppo, la poligamia e l’inferiorità delle donne, un insieme di credenze e di comportamenti che i popoli di Siria, di Palestina, di buona parte dell’Africa già conoscono attraverso l’ebraismo e il cristianesimo. Ma è evidente che l’islamismo riesce a diffondersi con facilità perché, contrariamente a quanto succede nelle altre religioni “rivelate” in cui sussiste sempre un ambito di mistero e di dubbio interpretativo, Allah dice con chiarezza ciò che vuole dato che parla attraverso un uomo: è sufficiente obbedirgli alla lettera. La serie di gesti quotidiani di purificazione, di garanzie magiche fornite dall’esecuzione rituale della preghiera, l’aggregazione iniziatica al gruppo del popolo eletto per mezzo della circoncisione, danno forza concreta, tangibile, al sentimento della fede. Altrettanto succede per quanto riguarda l’ordine sociale, basato sul più istintivo concetto di giustizia, quello del taglione. L’occhio per occhio, dente per dente, morte per morte, è facile da comprendere e garantisce un’immediata e reale soddisfazione, quella sul corpo. Nell’islamismo sono in atto, quindi, le strutture universali del Sacro e la loro organizzazione sociale a livello elementare, strutture che vibrano spontaneamente nell’animo umano perché rispondono, acquetandolo, al bisogno di sicurezza che assilla ogni uomo.

  C’è un fattore in più, però, nella religione di Maometto che domina su tutti gli altri imprimendogli un’inesauribile vitalità: bisogna combattere per la vittoria di Allah. È l’ordine che Maometto ha dato fin dall’inizio e che ha garantito e garantisce tutt’oggi l’espansione dell’Islamismo: combatti e vincerai. Il termine “combattere” è uno dei più frequenti nel testo del Corano: Islam e battaglia vittoriosa sono la stessa cosa perché è Dio che combatte quando i suoi fedeli combattono. “Ricordati come il tuo Signore ti ha fatto uscire dalla tua dimora per la missione di verità” (VIII, 5); “Non voi li uccideste a Badr, bensì Dio li uccise, né tu scagliasti la sabbia nei loro occhi, quando la scagliasti, bensì Dio la scagliò” (VIII, 17); “Quelli che abbandonano il loro paese e combattono nella via di Dio, quelli possono sperare la misericordia di Dio” (II, 215); “Se non uscirete in campo, Dio vi punirà con un castigo doloroso e vi sostituirà con un altro popolo” (IX, 39); “Uscite in campo, armati leggermente e pesantemente, e combattete, colle vostre sostanze e con le vostre persone” (IX, 41).

 Quanto piace agli uomini sfidarsi! Quanto piace agli uomini combattere! Quanto piace agli uomini vincere! Maometto non ha avuto dubbi: non c’è differenza che tenga, né di razza né di lingua né di storia, di fronte alla voglia dei maschi di combattere e di vincere. Vincere significa che sei il più forte, che le tue idee sono quelle giuste, che la tua religione è quella vera, che tutto ciò che esiste nel mondo ti appartiene e che hai diritto ad impadronirtene. Parte da qui, dunque, la violenza insita nell’Islamismo. L’Occidente l’ha dimenticato; l’Europa soprattutto l’ha dimenticato, vedendo vivere tranquilli all’interno del proprio territorio tanti gruppi musulmani. Ma si tratta di un errore. I nostri maschi stanno morendo. Quelli musulmani moriranno insieme ai nostri? Sicuramente no. Si uniranno ai combattenti che già premono su di noi e vinceranno.

Ida Magli
18 ottobre 2014
(allegato a Il Giornale: “Non perdiamo la testa”)

_________________________________
1 Il Corano, sùra VI, 137, nuova versione letterale italiana, Hoepli ed., Milano 1987, terza ediz. riveduta. Tutte le citazioni del Corano contenute nel testo sono tratte da questa edizione.


 
 
 

 

 
 
www.italianiliberi.it  posta@italianiliberi.it