eDITORIALE

Un popolo odiato

di Ida Magli
ItalianiLiberi | 18.10.2012

   Sembrerebbe incredibile che si possa odiare la propria terra, la propria patria, i propri concittadini, addirittura lo Stato del quale si è il Presidente, al punto da auspicarne al più presto la consegna agli stranieri, la perdita della sovranità e dell’indipendenza. Eppure agli Italiani è successo anche questo nella loro terribile, lunghissima storia di odi e di tradimenti da parte dei loro governanti, re, imperatori, papi, parlamentari di ogni tendenza e di ogni partito. Quello che è nuovo nella situazione attuale è che i detentori del potere sembrano odiare anche se stessi, uccidono anche se stessi nel momento in cui odiano e uccidono gli italiani. Il quadro politico, infatti, dice chiaramente soltanto questo: se tutti si affaccendano  per prepararsi alle prossime elezioni significa che non si rendono conto di aver ridotto a grottesca finzione il parlamento approvando in massa i dittatoriali decretoni  dei “tecnici”.

  È successo ancora ieri e non si può non rimanere stupiti di fronte alla perseveranza con la quale il Pdl si condanna a morte. Una cosa è certa: ogni volta che vota per il governo Monti, il centrodestra perde il diritto a esistere (per non parlare dell’odio che suscita nei suoi elettori). È in ballo infatti la sopravvivenza dell’Italia come stato, la sua sovranità come “nazione”, una sovranità che con Maastricht e con l’euro, con la Merkel e con la Bce, l’Europa ha già quasi del tutto eliminato. Dato che i temi della patria, della libertà, dell’identità, della memoria storica, della religione, della famiglia, sono (o forse bisogna dire “erano” ) precipui delle destre, è evidente che è questo il motivo fondamentale per cui il Pdl appare ormai sotto shock, in fase di disintegrazione. Si sente ripetere da ogni parte che bisogna trovare volti nuovi, gente giovane e capace di entusiasmo, ma è inutile sottolineare il fatto che si riuscirà a trovare soltanto persone ancora più affamate di potere e di benefici di quelle vecchie e più abili nell’afferrarli. Il parlamento è oggi il luogo dove chi è privo di rispetto per se stesso e per qualsiasi valore,  svolge la funzione di servire i banchieri e i loro superiori incogniti.

  La sinistra appare meno disastrata della destra semplicemente perché la marcia verso l’internazionalismo, verso il primato economico-finanziario nella gestione del potere, verso l’annullamento dello stato nella solidarietà con in popoli di tutto il mondo è, fino dalle origini, la sua meta ideale. Da lì scaturisce l’eccesso di baldanza e al tempo stesso le esitazioni che in questo momento esibiscono i partiti dato che probabilmente non si erano accorti di aver completato il percorso nel momento in cui, con gesto concreto ma anche altamente simbolico, è stato un presidente della repubblica comunista, chiamando l’Europa, a sventolare la bandiera del traguardo vittorioso. La sinistra è giunta impreparata, infatti, davanti a una situazione di cui le era sfuggito il significato anche se l’ha sempre desiderata e ha lavorato incessantemente per realizzarla: un’Europa marxista, dominata dall’economia, molto simile alla Russia bolscevica. Passetto dopo passetto l’arma della “uguaglianza” ha eliminato tutte le differenze, e dunque tutti i ruoli: Genitore 1, Genitore 2… Niente più padre, niente più madre, niente più famiglia, niente più religione, niente più proprietà, niente più patria, niente più nazione, niente più italianità, fino a: niente più libertà. Il sistema è soltanto più sofisticato: il controllo di tutti i movimenti nei conti correnti attraverso la denuncia delle banche sostituisce la presenza in ogni gruppo delle spie staliniane e rappresenta una forma surrettizia dei “passaporti interni” in vigore  nell’Unione Sovietica. La sinistra comincia però a sentire anche molto sapore d’amaro nelle sue vittorie  e si accorge all’improvviso che  perfino il prediletto “gioco” della democrazia, nel quale si è esercitata ininterrottamente lungo il trascorrere degli anni, adesso non serve più. Il traguardo era, anche in Europa, il governo dei “tecnici”. Si erano dati questo nome, infatti, Lenin e i suoi compagni rivoluzionari assumendo il potere al posto dei politici. I partiti se ne convincano: hanno perso tutti.

Ida Magli
18 Ottobre 2012 



 

 


 
 
 

 

 
 
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