eDITORIALE
L'Inquisizione fiscale
di Rosaria Impenna ItalianiLiberi | 22.02.2012 Nell’epoca
della “falsificazione del bene”, la nostra, come viene spesso ricordato
ai lettori di questo sito, ci preme smascherare il significato che
avvolge l’ufficialità di alcune tra le espressioni più usate da
governanti, ecclesiastici e burocrati, dediti all’esercizio del Potere.
L’operazione sarà applicata all’ambito che opprime da tempo gli
Italiani per i modi con cui i detentori del potere ne arringano la
legittimità dei sistemi vessatori, quello fiscale e finanziario.
Seguendo il noto principio, per cui il linguaggio rivela quel che dice,
ma soprattutto quel che tace, partiremo dall’analisi delle frasi più in
voga per capire quel che spesso celano. Pensiamo infatti, che alcune
dichiarazioni pronunciate nel segno della lotta all’evasione
racchiudano una motivata ferocia perché riescono a evocare vicende
storiche particolarmente crudeli. Per questo, i proclami in questione
si identificano un po’ tutti e possono essere letti come parti di un
medesimo discorso, estrapolati dal contesto, rimandano infatti a
precisi significati. Come ad esempio: “È peccato non pagare le tasse
perché oggi c’è da salvare l’Italia; ciascuno a suo tempo si esprimerà
in coscienza rispetto al Governo di buona volontà”, pronunciata dal
cardinale Angelo Bagnasco; oppure: “Il Governo sarà senza pietà con chi
evade le tasse, staneremo ovunque gli evasori fiscali”, del
sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Antonio Catricalà, a cui
fa eco il direttore generale dell’Agenzia delle Entrate, Attilio
Befera: “L’effetto deterrenza si fa anche con la propaganda. Incutere
un sano timore è necessario per ottenere il versamento spontaneo”,
perché “Equitalia, che ha finalmente a disposizione un arsenale di
controlli degno della Berlino comunista, vede tutto e sa tutto”; fino
all’ignominiosa: “A mettere le mani nelle tasche degli Italiani sono
gli evasori e non i governanti”, del presidente del Consiglio Mario
Monti, che ha evidentemente dimenticato il folto stuolo dei suoi
colleghi banchieri “miliardari”, che giocando in Borsa con i soldi che
non possedevano hanno davvero messo le mani nelle tasche degli
Italiani, dei Greci e di tutto il mondo. Tale spietata provocazione
poteva pareggiare soltanto con il novello istituto della “delazione”,
che vedrà addirittura premiato per un importo non inferiore al 15% e
non superiore del 30% della somma recuperata, chi segnalerà la spiata.
E poi ancora, intimidatori annunci come “redditometri”, “spesometri”;
l’accesso illimitato e totale dell’Agenzia delle Entrate ai conti
correnti bancari; “limite” di prelievo dal “proprio” conto;
l’abolizione, di fatto, del contante con l’imposizione della moneta
elettronica anche ai pensionati; l’enfasi da parte dei mass media per
le “liste di proscrizione” pubblicate dal governo di Atene sul web, a
indicare la gogna per un numero di ben 4.152 persone. Ecco, l’insieme
di tali iniziative, minacciose e umilianti per la popolazione, ci
portano a contesti storici precisi, quelli della lotta all’eresia. I
metodi impiegati dai Tribunali per la caccia agli eretici ci sembrano
infatti comparabili a quelli dei nostri “poliziotti” tributari e
finanziari.
L’Istituto del Tribunale Inquisitoriale, nasce a Firenze nel
1231, con il pontefice Gregorio lX, che esautorò della giurisdizione in
materia di fede il vescovo della città per dare incondizionato mandato
al priore domenicano di Santa Maria Novella, Giovanni di Salerno. Alla
sua morte la giurisdizione non ritornò al vescovo, in quanto
l’esperimento aveva dato ottimi frutti, ossia molte condanne e nel
1257, il papa Alessandro lV, sentenziò l’estromissione dei vescovi
dalle decisioni, il Tribunale dell’Inquisizione divenne così
indipendente. Nel 1252, Innocenzo lV, con la bolla Ad Extirpanda,
introdusse la pratica della tortura (di fatto sempre adottata in tutte
le latitudini), come mezzo legale al fine di pervenire alla confessione
del reo ostinato; dato che la “regina delle prove era la confessione”.
Nel 1542, il papa Paolo lll Farnese, con la bolla “Licet ab initio”,
darà all’Istituzione una base amministrativa centralizzata ponendola
sotto il controllo della Congregazione della Santa Inquisizione
dell’Eretica Pravità.
I tribunali speciali della Santa Inquisizione avevano
l’esclusiva competenza di perseguire i reati in materia di fede, il più
grave dei quali era “l’eresia”, considerata non solo una deviazione
dall’ortodossia con l’inevitabile perdita dell’anima, ma anche “reato”,
in quanto attirava l’ira di Dio sull’intera collettività. Se
sostituiamo la parola “eresia”, e il profondo senso teologico che
rappresentava, con quello attuale di “evasione fiscale”, nulla è
cambiato. Scopriamo ad esempio, che l’investigazione iniziale poteva
avvenire sia su “stimolo esterno”, ossia per denuncia anche anonima,
sia su spontanea iniziativa dell’inquisitore, spinto da una semplice
diceria popolare. Ma la grande novità del Tribunale Inquisitoriale sta
nello stravolgimento del diritto romano; in quest’ultimo, accusato ed
accusatore erano posti sullo stesso piano, l’accusato non doveva
dimostrare infondata l’accusa, era l’accusatore obbligato a provarne la
fondatezza e non poteva essere condannato in base a semplici
“sospetti”. Il famoso giurista romano Ulpiano sosteneva che era
preferibile lasciare impunito un colpevole che condannare un innocente.
I giudici dell’Inquisizione, al contrario (come i nostri “poliziotti”
tributari contemporanei), ritenevano che fosse meglio condannare cento
innocenti che permettere ad un solo colpevole di sfuggire alla pena.
Nel processo, l’inquisitore è padre, prete, confessore,
poliziotto, torturatore, accusatore ed infine giudice, ma non avvocato;
infatti, rispetto al processo romano, l’imputato non era “assistito”,
limitazione formalmente introdotta da Bonifacio Vlll. L’inquisitore
agiva quindi con il potere più ampio e nel modo più arbitrario, ma di
norma l’azione penale prendeva le mosse da una denuncia. Perciò, chi
“ometteva” di denunciare un eretico era considerato sostenitore
dell’eresia e perseguibile a sua volta come tale. “L’eresia va
combattuta come una malattia contagiosa e quindi dannosa per tutto il
corpo sociale”; perciò, “scomunica automatica” (latae sententiae) per i
cristiani che non denunciavano l’eretico e un premio di tre anni di
“indulgenza” per i “delatori”. L’obbligo di denuncia per combattere
l’eretica pravità eliminava anche il “segreto confessionale”. Non
esistevano neppure vincoli di parentela: il padre aveva l’obbligo di
denunciare il figlio, il figlio il padre, la moglie il marito e questi
la moglie. Il papa Gregorio lX si compiaceva di citare casi in cui i
genitori avevano denunciato il figlio, la moglie il marito e viceversa.
Nessuno poteva stare tranquillo, tutti sospettavano di tutti; la
comunità si chiudeva a riccio e ciascuno vedeva nell’altro un possibile
delatore. Bastava una parola, magari male interpretata, riferita
all’inquisitore, per far cadere nella tragedia non solo l’accusato, ma
l’intera famiglia e persino le generazioni future. Infatti, la scoperta
di un antenato eretico, dunque già morto, comportava la confisca dei
beni da lui ereditati, in tal caso si processava in
“effige”. L’inquisitore, aiutato nelle indagini da un folto numero di
aiutanti, chiamati “famigli” o famigliari, quasi sempre ex criminali,
sue guardia del corpo, autorizzati a portare armi e non
perseguibili per i reati commettessi, è dunque la figura centrale per
la sua polivalente funzione. Esso come poliziotto è “cane di Dio”, un
mastino che deve intervenire e colpire ovunque ritenga si annidi la
peste dell’eresia. Ogni sua predica si concludeva infatti con
“l’ammonizione generale” con la quale si ordinava a tutti di denunciare
gli eretici o i sospetti tali, anche solo per sentito dire. E ammoniva
i fedeli che se entro sei giorni (portati successivamente a dodici) non
avessero ottemperato a questi obblighi sarebbero stati colpiti da
scomunica, con tutte le conseguenze canoniche, civili e penali.
All’ammonizione generale seguiva “l’editto di grazia”, con il
quale si disponeva che gli eretici ed i “sospetti”, che entro un
determinato termine si fossero presentati “spontaneamente chiedendo
perdono” senza attendere la denuncia, avrebbero ottenuto “l’impunità”.
Impunità simbolica e reale che da tempo non si vedono riconoscere gli
Italiani, sicuramente il popolo tra i più perseguitati nella storia.
Rosaria Impenna
Roma, 22 febbraio 2012
www.italianiliberi.it
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