eDITORIALE
Fuga dall'Unione europea
di Raffaello Volpe ItalianiLiberi | 26.01.2012
Introduzione di Ida Magli
Presentiamo
ai nostri lettori una riflessione su due testi che in apparenza non
hanno nulla a che fare con i nostri problemi attuali. Viceversa si
tratta di una “rappresentazione” del nostro presente e del nostro
futuro. Purtroppo nessuno parla di questo anticipo della
“prigionia-campo di concentramento Europa”, reiterando invece la
cosiddetta “Memoria dell’Olocausto” che tutti conoscono ormai molto
bene.
L’Italia è un paese comunista e il fatto che le Sinistre (con un
passato appassionatamente comunista) siano le migliori alleate
dell’Europa mondialista in mano ai banchieri, nasconde e al tempo
stesso rivela il sistema sofisticato e perverso messo in atto per
instaurare la dittatura finanziaria sui sudditi. Una dittatura che
infatti ha come sue prime vittime coloro che hanno a che fare con i
fallimenti finanziari. Non hanno bisogno di fucilarli. Per questo il
sistema è sofisticato e perverso: si suicidano. Si sono suicidati
centinaia di funzionari della France Telecom nel 2008; si sono
suicidati e si stanno suicidando, nell’indifferenza di governi e di
giornalisti, i piccoli imprenditori - due Italiani soltanto nell’ultimo
mese - che non sono più in grado di pagare i dipendenti e salvare le
proprie aziende.
Una nazione che si fa governare dai banchieri diventa anch’essa rapidamente perversa. L’Italia lo è già.
Ida Magli
Ivan Solonevich, Fra i deportati dell’U.R.S.S., Fratelli Bocca Editori, Milano, 1939
Ivan Solonevich, La fuga dal Paradiso sovietico, Fratelli Bocca Editori, Milano, 1939
I due
testi che qui proponiamo sono di Ivan Solonevich, giornalista russo ma
anche scrittore straordinario. Essi descrivono in due distinte
“puntate” il periodo trascorso dall’autore, insieme al figlio Jura e al
fratello Boris, nei campi di concentramento in Unione Sovietica. Furono
tutti e tre internati nel 1933 con l’accusa di “azione
controrivoluzionaria”, all’epoca reato grave da scontare con condanne
anche fino a otto anni e, successivamente, dalla metà degli anni '30,
con la fucilazione immediata. La colpa vera di Ivan Solonevich, sulle
ali del tentativo di fuga dei tre dal proprio amato Paese, fu quella di
essere un giornalista che per “mestiere”, essendo a contatto con
giornalisti stranieri, poteva rivelare all’estero ciò che all’epoca
avveniva in Russia ― siamo in piena era staliniana ― cosa che avrebbe
reso evidente il fallimento dello Stato sovietico e del sogno di
“internazionalizzazione” della rivoluzione bolscevica. Questa
“potenziale” pericolosità fa finire nei campi di lavoro sovietici anche
il figlio Jura, appena diciassettenne all’epoca dell’internamento e
senza nessuna colpa, naturalmente, se non quella di essere figlio di
Solonevich. La condanna avrebbe avuto il suo naturale decorso nella
morte dei tre, così come avveniva quasi sempre nel caso dei condannati
ai lavori forzati dei campi, viste le proibitive condizioni ambientali
e di detenzione, e visto che stiamo parlando di siti di prigionia
dislocati a macchia di leopardo su tutto l’immenso gelido territorio
siberiano. In realtà, da un lato l’intelligenza non comune dei tre (il
fratello Boris era medico, anche lui un “intellettuale”…), dall’altro
le loro eccezionali doti fisico-atletiche faranno si che i nostri si
mettano in salvo dopo una rocambolesca e ben congegnata fuga, riuscendo
alla fine a evadere e a sconfinare in Finlandia.
L’aspetto più significativo, tuttavia, non consiste nel racconto
toccante e avvincente ma soprattutto in una straordinaria analisi del
potere sovietico attraverso l’occhio meravigliosamente implacabile
dell’intelligenza umana. Paradossalmente la migliore arma per la fuga
nelle mani dei tre sarà l’uso dell’”haltura”, quella dell’invenzione
menzognera e consistente nell’utilizzo, per la propria salvezza, dello
strumento più terribile del potere oppressivo sovietico: quello della
falsificazione sistematica della realtà. Ivan Solonevich non ci ha
soltanto fornito ― fra i primi a farlo ― un documento storico
importantissimo, unico, assieme a pochissimi altri esempi di
testimonianza diretta dell’inferno sovietico, ma ci ha lasciato in
eredità e come monito per il futuro un’analisi acuta dei perché
allucinanti dell'ideologia comunista, mettendone a nudo l’odio verso
l’umanità intera e non solo contro il singolo individuo.
L’occultamento storico di testi come questi, si badi bene, non più
ripubblicati in Italia dopo la seconda guerra mondiale ma tradotti in
dodici lingue fra il 1936 e il 1939, sono la prova che l’ ”oppressione”
è ancora in atto, in una forma certamente più sofisticata ma
sostanzialmente identica in quanto a mentalità: vedasi l’unione
europea, un'operazione di “haltura” diabolica contro noi tutti di gran
lunga superiore a quella sovietica. L’incredulità di chi leggeva nei
decenni successivi alla loro pubblicazione o ancora oggi ascolta questi
racconti, cosa che avviene quando se ne parla, ci segnala che tuttora
il potere teme una testimonianza viva e vera come questa: vi sarebbe da
chiedersi il perché.
A noi il racconto di Solonevich fa paura per certe analogie con la
“rappresentazione” del potere scaturita dal genio di Orwell nel suo
“1984” (il quale sicuramente aveva letto Solonevich pubblicato in
inglese al suo ritorno nell’Europa dell’Ovest), ma anche per quelle con
il potere dell’unione europea, in quanto a opera di “mistificazione”
della realtà, prova di gravissima “deviazione” patologica anche oggi,
un potere a ben vedere più feroce di quello di Stalin. Anche se
Solonevich riuscirà a fuggire dai campi di concentramento sovietici,
ciò non gli consentirà di sfuggire successivamente alla vendetta dei
servizi segreti del suo paese, visto che perderà in due distinti
attentati l’amatissima moglie e l'amatissimo figlio Jura, pagando a
caro prezzo l’aver scritto queste due opere di coraggiosa denuncia. Nel
loro insieme, esse costituiscono un atto d’accusa contro la follia
assoluta e contro natura, da proiettarsi in un improbabile futuro
…”mondiale”, dell’ideale “homo novus comunista”.
Un “futuro” di morte, ben s’intende, analogo a quello “mondialista” di
oggi. Noi affidiamo invece ai lettori la speranza in un altro futuro,
migliore, che è solo umano e non “internazionalista”, citando
l’episodio terribile della bambina russa con la pentola di ghiaccio. La
bambina incontra Solonevich una gelida mattina in uno dei tanti campi
staliniani, mentre, a meno quindici sottozero, tentava di "riscaldare"
con il proprio corpicino seminudo una pentola con della minestra
ridotta a un blocco di ghiaccio. Solonevich si prenderà momentaneamente
cura della piccola, ma l'episodio, che racconta nel primo dei due
libri, verrà citato nel secondo poco prima del finale di tutto il
racconto. Il ricordo di quella bambina, delle persone rimaste
prigioniere e della patria lontana non può essere dimenticato, per
Solonevich deve avere un futuro, e la frase conclusiva che un
poliziotto politico russo rivolge loro: «Signori, voi siete liberi…» ci
suggerisce che non vi può essere futuro senza libertà.
Raffaello Volpe
www.italianiliberi.it
Roma, 26 Gennaio 2012
In caso di riproduzione si prega di citare la fonte.
|
|