eDITORIALE
Suicidio in strada, la morte ridotta a banalità
di Ida Magli Il Giornale | 23/04/2010
La
nostra società vive oggi su due piani diversi di percezione dei
significati: quello “reale”, dato dall’insieme dei valori che si sono
creati negli ultimi anni in base alla spinta dei nuovi comportamenti, e
quello “ideale”, che risuona quasi per istinto in base ai valori di un
passato che ha attraversato millenni e che, per quanto superato, non è
però mai stato messo apertamente in discussione. Al centro di questo
profondo disagio c’è la morte. Non la morte in senso filosofico o
teologico, ma la morte così come si è presentata agli uomini fin
dall’inizio della loro storia: il cadavere. La morte, infatti, non è
“pensabile”; è stato sempre e soltanto il cadavere che ha costretto gli
uomini a prendere posizione, e prima di tutto a chiedersi: si
risveglierà? Che cosa ne facciamo? Dove lo mettiamo? Ritornerà?
Antropologi, storici, etnologi sono rimasti stupefatti davanti alle
incredibili manovre che ogni popolo compie, o ha compiuto, intorno al
cadavere; non hanno trovato in nessun altro campo tanta preoccupazione,
tanta varietà di costumi. Qualsiasi cosa se ne facesse, però, fino a
ieri il cadavere ha fatto parte della trascendenza, del Sacro, in
quanto rappresentante, testimone, muto ma terribilmente eloquente, del
mondo dell’ignoto, dell’al di là, delle Potenze dell’al di là; perfino
da noi come minimo ci si toglieva il cappello al suo passaggio, il
traffico si fermava per dargli la precedenza, le donne si facevano il
segno della croce. Se oggi, invece, un cadavere, come è successo a
Lecco, non suscita nessun sentimento e nessun segno di rispetto, di
pietà, in coloro che gli passano accanto, è perché la morte non è più
alla base del sacro, delle religioni, dei legami del gruppo attraverso
i comuni Antenati, e il cadavere, di conseguenza, è visto soltanto come
un oggetto fra gli oggetti. Tanto oggetto, anzi, da poterlo usare come
pezzo di ricambio nei trapianti.
Coloro
che se ne meravigliano evidentemente non hanno ancora preso atto della
“banalità” assunta dalla morte nella nostra cultura. La vita è tutta
“di qua”; l’al di là non interessa o, almeno, non interessa nelle forme
narrate fino ad oggi dai miti e dalle religioni. Ci si potrebbe
chiedere se sia un male, dal punto di vista della spiritualità e
dell’etica, oppure un bene, in quanto non sarebbe più il timore della
morte, dell’eventuale punizione nell’oltretomba, a indurre le persone a
credere negli ideali più alti e a compiere le azioni migliori. E’ una
discussione, questa, che non è ancora stata aperta, almeno in maniera
esplicita; forse proprio perché i responsabili delle varie istituzioni
che per un motivo o per l’altro si trovano a dover parlare della morte
(gli insegnanti, i medici, i sacerdoti) o ne evitano le implicazioni
più problematiche e dolorose, oppure si rifugiano negli stereotipi
collaudati da millenni. Tuttavia non si può più rimandare questo tipo
di riflessione. Per i non credenti l’impegno nella vita “di qua”
dovrebbe essere perfino più stringente che non per coloro che si
affidano al sostegno della fede, ma bisogna riconoscere che il contesto
attuale non li spinge in questa direzione, anzi: l’assillo quotidiano
alla produttività materiale, l’informazione superficiale al posto di
una vera conoscenza, non aiutano il formarsi di una forte e autonoma
personalità. Anche per i credenti, specialmente per i cristiani, la
discussione su questo tema è difficile. Ma l’importante è iniziarla:
senza fughe, senza ingenuità, senza timore.
Ida Magli 22 aprile 1010
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