eDITORIALE
Da detenuti a soldati del jihad, ora in cella l'islam fa paura di Ida Magli il Giornale | 24/05/2010
Fra
i tanti problemi posti dall’eccessiva presenza in Italia d’immigrati,
uno dei più difficili da risolvere è quello dell’alto numero di
musulmani nelle carceri. Si tratta di molte migliaia di persone che si
trovano a vivere una delle esperienze più dolorose, quale appunto
quella della privazione della libertà, in un ambiente dove non si parla
la loro lingua, dove non possono condividere col compagno di cella né
ricordi del passato né progetti per il futuro; dove, insomma, la
“estraneità” della terra d’origine, della patria, della religione, dei
costumi, dei sentimenti, delle abitudini quotidiane, già tanto forte
all’esterno, assume in un certo senso una dimensione “essenziale”.
Soltanto se si fa lo sforzo di comprendere quest’aspetto del vissuto
carcerario dei musulmani, si può rendersi conto di come la scoperta, o
la riscoperta della devozione religiosa, attraverso le cure che in tal
senso porgono loro i più solerti compagni, divenga un legame e una
forza di salvezza.
Di fatto è stato organizzato un sistema di recupero al Corano nei
confronti dei prigionieri, anche di quelli più lontani dall’osservanza
della fede, cosa che senza dubbio aiuta psicologicamente le singole
persone, specialmente quando sono state trascinate nella criminalità
del furto o della droga dalla mancanza di un qualsiasi ordine di vita e
di lavoro. Ma soprattutto le spinge a trovare un nuovo centro
d’interesse e una guida concreta proprio perché il Corano non è
soltanto un testo sacro, quanto un codice simultaneamente civile e
religioso; una voce che dice al credente come Dio gli indichi una
strada sicura nella quale non sarà mai lasciato solo purché sia fedele
alle preghiere e ai precetti quotidiani. Questa, però, è soltanto una
premessa a ciò che sta diventando una forma di organizzazione
disciplinata e attenta di molti degli immigrati musulmani che, proprio
perché selezionati fra quelli meno integrati in Italia e già
predisposti alla devianza come i prigionieri, possono più facilmente
diventare portatori di un’esasperata volontà di riscatto islamico, ed
eventualmente anche eversiva. In altri termini, non è inverosimile
supporre che si stia sviluppando una forma di vero e proprio
indottrinamento dei prigionieri che porti, attraverso la maggiore
fedeltà al Corano, al recupero della forma più radicale d’identità
musulmana, quella che non ammette l’esistenza di “infedeli”, i quali
vanno combattuti e vinti in nome di Allah.
E’ questo un aspetto nuovo delle difficoltà che l’immigrazione pone
agli Italiani. Lontani come sono ormai in grande maggioranza da una
fede che li induca alla battaglia, i cattolici non riescono a rendersi
conto della forza di una fede religiosa quando è sentita in forma
assoluta. Nelle carceri si trovano naturalmente molti italiani, ma il
cappellano è una figura ovvia, amica, confortante di per sé, non perché
induca a forti passioni in nome di Dio. Non sappiamo se, posti nella
stessa cella, non sia il musulmano a suscitare l’interesse del
cristiano parlandogli di Allah più che il cappellano parlandogli di
Dio. Questa è la situazione, e la Chiesa non sembra per niente
preoccuparsene, anzi. Si preoccupa degli immigrati, del loro diritto
alla propria religione, senza neanche il più piccolo tentativo di
mettere in luce l’abisso che separa l’obbligo coranico dell’odio per
gli infedeli dal: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che
fanno”. Nei confronti dei cattolici, i preti sembrano ormai
accontentarsi di una stanca routine, fatta di parole ovvie e sempre
uguali, ben sapendo che a nulla servono e che nulla cambiano. Anche
le carceri, dunque, lungi dal preparare gli immigrati a quella
“integrazione” di cui si dimostra tanto sicuro Gianfranco Fini,
allevano dei forti musulmani che probabilmente, una volta usciti, sia
che rimangano in Italia, sia che tornino nei loro paesi, saranno
disponibili ad azioni ostili. Qualche correttivo, però, si potrebbe
mettere in atto, se non altro organizzando gli incontri religiosi sotto
la guida di un imam conosciuto dalla direzione delle carceri; ma
soprattutto non accantonando il problema nella speranza che si risolva
da sé.
Ida Magli 22 maggio 2010
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