eDITORIALE
Dovevamo aiutarli a casa loro
di Ida Magli Il Giornale | 09/01/2010
La
prima domanda è questa: possibile che gli italiani non siano capaci di
raccogliere pomodori, aranci o mandarini? Si tratta di un lavoro che
non richiede nessuna competenza o preparazione e che dunque chiunque
può fare. Si tratta, inoltre, di bisogni stagionali, prevedibili
quindi, sia per la data che per la quantità. Organizzarsi perciò
sarebbe facile purché il datore del lavoro fosse disposto a pagarlo
nella maniera giusta e non lo mettesse, invece, pur di spendere il meno
possibile, nelle mani delle bande criminali che imperversano da anni
nelle campagne del Sud. Di solito si obietta a questa esposizione dei
fatti, che nessuno in Italia vuol più fare il lavoro di campagna.
Questa, però, è una conseguenza, non la causa della mancanza di mano
d’opera, i cui motivi sono molto semplici da capire. Il primo è la
scarsezza della retribuzione in quanto, come è noto, il prezzo della
frutta e degli ortaggi, altissimo alla distribuzione, è bassissimo
all’origine. Il secondo, forse più grave, è dovuto al formarsi, per una
spontanea e inevitabile legge psico-sociale, di una specie di etichetta
deteriore di “appartenenza”, una “evitazione”, quasi come un tabù su un
lavoro che diventa “basso” in quanto svolto da chi è ritenuto basso. Se
vogliamo, perciò, che non ci sia bisogno di immigrati nelle campagne, è
necessario assicurare ai contadini una giusta retribuzione per la loro
fatica e fare in modo che non si formi il tabù del lavoro da immigrato,
organizzandolo con il rispetto delle norme sindacali e tenendo
aggiornati gli elenchi dei lavoratori stagionali così da non dover
ricorrere ad una manovalanza reclutata bestialmente dalla criminalità.
Non si può non segnalare, a questo punto, la responsabilità delle
Amministrazioni comunali e regionali che ormai da molti anni chiudono
gli occhi sulle organizzazioni criminali che imperversano in certe zone
del sud d’Italia e che tengono in pugno i lavori stagionali e lo
sfruttamento degli immigrati clandestini. Le “autonomie” non sono state
in grado, in buona parte della Calabria, della Puglia, della Sicilia,
della Campania, di liberarsi dalle catene di mafia, ‘ndrangheta,
camorra, evidentemente troppo forti e fornite di troppe complicità e
collusioni. E’ necessario, quindi, arrendersi all’evidenza, e
consegnare allo Stato l’opera forte e implacabile della bonifica e
riorganizzazione degli uffici e dei servizi comunali e regionali.
Rimane,
naturalmente, il problema più grave e più doloroso: quello degli
immigrati. L’abbiamo detto e ripetuto molte volte: l’Africa la si può
salvare soltanto se vogliamo davvero salvarla. Non con la carità, non
con la compassione, non con lo sfruttamento che alla fine provoca i
tumulti di questi giorni, ma insegnando agli Africani a fare nel loro
paese quello che noi facciamo nel nostro e che loro stessi imparano a
fare nel nostro. Si tratta di un Continente ricchissimo sotto ogni
aspetto e che può fornire in abbondanza, con l’uso delle tecniche,
tutto quello che serve al benessere delle popolazioni. L’importante è
convincere un musulmano (l’Africa è in grandissima maggioranza
musulmana) che non è disdicevole lavorare al proprio paese, così come
non lo trova disdicevole quando ne è lontano. Questo è infatti il primo
problema: un maschio musulmano fa lavorare la moglie o le mogli, cosa
che ovviamente è poco produttiva. Le donne, oberate dalla fatica e dai
figli, non acquisiscono tecniche agricole che comportino macchine e
strumenti faticosi, non possono provvedere ad abbondanti irrigazioni
così che, in genere, si accontentano dei prodotti necessari
all’alimentazione familiare e ad un piccolo commercio. Anche la
fabbricazione artigiana di vasi e stoviglie è compito delle donne,
bravissime da secoli nel plasmare l’argilla e nel portarla al mercato,
ma di nuovo ci troviamo di fronte al fatto che senza il lavoro dei
maschi l’Africa non può industrializzarsi. Laddove i maschi lavorano,
come per esempio nelle miniere, nell’estrazione del petrolio, si tratta
di industrie impiantate dagli “occidentali” per se stessi, non per gli
africani. Questo dobbiamo fare: impiantare piccole e grandi industrie
per loro, preparandoli a gestirle da sé.
Ida Magli 8 gennaio 2010
|
|