Editoriale

Quella moneta unica
ancora in cerca
della sua immagine

di Ida Magli
Il Giornale | 05/05/2010



  In una pagina del Giornale del 30 aprile scorso tutta dedicata agli attuali problemi monetari, Giuseppe De Bellis si è soffermato su di un tema essenziale e che era davvero ora che qualcuno affrontasse: non è soltanto l’economia a fare la forza di una moneta perché “la vera forza del dollaro è l’immagine dell’America”. Si tratta di un’affermazione che ovviamente riguarda tutte le monete; ma purtroppo gli economisti e i banchieri assolutizzano il proprio campo d’azione (come capita a tutti i dittatori) facendo dipendere la forza delle monete quasi soltanto dal PIL, dal commercio o dal debito pubblico di una nazione. E’ vero: è l’idea universale di un’America “giovane”, entusiasta, energica, vittoriosa, in qualche modo sostanziata di “futuro”, e pertanto prototipo di una modernità che rimane sempre tale, ad aver comunicato al dollaro, quasi in forma sacramentale, questa stessa immagine.

  E’ indispensabile fare un’identica riflessione nei confronti dell’euro. Coloro che l’hanno progettato non hanno minimamente preso in considerazione la mancanza di un’immagine di “Europa” dietro alla moneta, e non serve a nulla notare adesso, di fronte alla sua crisi, che si sarebbe dovuta costruire l’Europa politica prima di quella monetaria. Di fatto l’Europa politica non è stata costruita perché era ed è impossibile costruirla. Come si sa l’istituzione che porta il nome di Parlamento europeo, continua a vivere da tanti anni un’esistenza di pura finzione (salvo che per i suoi enormi costi), come dimostra anche il suo silenzio nelle vicende di questi  giorni in relazione alla crisi greca. Il nome “Europa” ha sempre designato soltanto un territorio geografico. Gli imperi che vi si sono succeduti hanno fatto riferimento di volta in volta a Roma, o alla Francia, o all’Austria, ed è stato proprio per questo che hanno potuto svilupparsi con tanta precisa individualità di lingua, di letteratura, di arte, di costume, di carattere, i singoli popoli e le singole nazioni. La somma di queste ricchissime e diversissime individualità ovviamente non è possibile, così come non si possono sommare le mele con le pere, salvo che non si definiscano genericamente come “frutta”.  La riduzione al minimo comun denominatore della genericità geografica “europea” ha comportato per ogni Popolo e ogni Stato una gravissima perdita in tutti i campi, da quello dell’immagine a quello politico ed economico, cosa che all’inizio (ma forse anche adesso) era consapevolmente perseguita dai politici, sebbene ci sia stato ripetuto miliardi di volte il contrario, ossia che saremmo diventati ricchissimi e potentissimi. Era la Germania, erano i Tedeschi che dovevano, che volevano far dimenticare i propri connotati, confondendoli e sbiadendoli con quelli di tutti gli altri popoli nel mare indistinto dell’europeità. “Se non ci legherete come Gulliver con le corde dell’integrazione europea, voi avrete sempre paura di noi”, predicava instancabilmente Helmut Kohl (discorso dell’ottobre 1995 a Karlsruhe); ma per quanta acqua sia passata sotto i ponti, come sempre è la Germania a condurre i giochi e l’europeità continua a essere una finzione che conduce gli Stati verso una progressiva debolezza culturale e politica che si riflette in quella della moneta.

  A questo punto sono i popoli a dover pretendere che i politici si fermino a riflettere sull’assurda situazione creata dal primato dei banchieri insediati alla guida dell’UE. Il modo in cui si presenta oggi una nazione come la Grecia e l’operazione messa in atto per il suo salvataggio, è un chiarissimo, tragico specchio dello stato in cui tutti siamo ridotti con l’unificazione. Grottescamente sconfitta a Salamina da un’Agenzia di rating, dell’immagine della Grecia non è rimasto nulla: storia, civiltà, filosofia, arte, teatro, poesia, sono stati cancellati di colpo, e i Greci appaiono come derelitti mendicanti costretti a chiedere un prestito che nessun fratello europeo concede se non con alti interessi e precisando, come ha fatto con la consueta e mai scomparsa durezza teutonica la Germania, che se non si trattasse di salvare l’euro, i Greci potrebbero andare al diavolo.

Ida Magli – 2 maggio 2010 - Roma


 
 















 
 
 
 

 

 
 
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