eDITORIALE
L'Europa ci costa troppo Ma uscirne è possibile Il trattato di Lisbona ha introdotto un’enorme quantità di vincoli, ma anche la possibilità giuridica della secessione di Corrado Sforza Fogliani * Il Giornale | 11/01/2010
*Presidente Confedilizia
Il
1° dicembre è entrato in vigore il Trattato di Lisbona sul
funzionamento dell’Unione europea. L’Italia (impegnata in un gossip da
bordello che sconforta) non se n’è quasi accorta. Eppure, è un Trattato
che - ratificato a cuor leggero dal nostro Parlamento, senza alcun
coinvolgimento dei cittadini, né diretto né indiretto - condizionerà
fortemente il nostro futuro, la nostra autonomia, i nostri
comportamenti. Il suo testo - stampato dalla Gazzetta ufficiale
dell’Unione europea - pesa kg 1,980, è un groviglio pressoché
inestricabile di norme, che ancor più ci consegna ai burocrati di
Bruxelles. Oggi, del resto, l’80 per cento delle norme pubblicate sulla
nostra Gazzetta è già di origine europea: col Trattato, diventeranno il
90 per cento. Di questa legislazione sconforta la luciferina
impostazione da Stato etico. L'ultima cosa che vogliono comandarci di
fare è di dimagrire, di mangiar questo e non quell’altro. In
questa situazione, in molti si è portati a trovare conforto in una sola
considerazione: che fra i tanti vincolismi a cascata che prevede (a
cominciare da quelli in materia di giustizia), il Trattato di Lisbona
una cosa buona l’ha introdotta, la possibilità giuridica della
secessione unilaterale. Che presuppone, peraltro, una maturazione
culturale che in Italia neppure si profila, se non considerando il
lavoro al proposito di pochi intellettuali d’avanguardia, di
impostazione libertaria. Che presuppone, soprattutto, di risolvere - in
primis - il problema del rapporto con l’Unione monetaria, con
particolare riferimento - comunque - al fatto che, passati gli anni
dell’ottimismo obbligatorio (e obbligato), vieppiù si sente nei singoli
Paesi (e in Italia in particolare, fin dall’inizio allegramente
autopenalizzatasi) il peso del vincolo che non permette ai Paesi stessi
di avere un cambio che rifletta la loro precisa situazione economica
(Martin Feldstein, da Harvard, l’ha denunciato senza peli sulla lingua
e, soprattutto, senza ipocriti inchini a una realtà acriticamente
considerata).
I
costi dell’Europa, d'altra parte, sono enormi (e la nostra Corte dei
conti li ha finalmente denunciati apertis verbis). Nel 2008, per di
più, l’Europa ha girato al nostro Paese 10 miliardi di euro in meno,
rispetto all’anno precedente. Di contro, appartenere all’Unione europea
ci è costato di più: nel 2008, gli oneri relativi hanno subìto
un’impennata del 73,3 per cento. Mica poco davvero, lo squilibrio è
inaccettabile. Questo quadro europeo s’innesta su una situazione
italiana nella quale un ottimista per natura come Francesco Micheli -
nell’intervista che questa icona della finanza italiana ha concesso a
Osvaldo De Paolini - non vede «un comune sentire politico teso a
risolvere i problemi». Che è il punto centrale della crisi, a ben
vedere. «Il nostro - sono parole di Micheli - è il Paese degli sprechi.
In tempi di crisi, le risorse sono scarse e sprecarle è un delitto. Una
delle priorità deve perciò essere quella di rendere efficiente la spesa
pubblica: sono convinto che, con una scelta decisa, si potrebbe
tagliare fino al 30 per cento delle entrate e riqualificare il 70 per
cento che resta per coprire le esigenze vere, creando disponibilità
soprattutto per le classi meno forti, che potranno così incrementare i
consumi. Non sono - conclude in punto Micheli - il solo a sostenerlo:
fior di studi sono stati prodotti sull’argomento, ma nessun governo
(italiano) ci ha mai provato per davvero». Un esempio? «Abolire il
bollo dell'auto, una delle tante fastidiose incombenze - fa presente
Micheli - che ci toccano e che potrebbe essere assorbito nel prezzo
della benzina». «Provarci per davvero» (ad «affamare la bestia»
della spesa pubblica) è l'unica strada per ridare tono alla nostra
economia. Ma provarci per davvero, significa voler abbattere
incrostazioni quasi secolari, eliminare assurde aree di privilegio,
sopprimere enti che vivono solo per mantenersi (i Consorzi di bonifica
ne sono un classico esempio) e così via. Significa battersi per davvero
contro il nemico che è alle porte: «I dollari messi in circolo - sono
parole, ancora, di Micheli - molto presto cominceranno a reclamare il
tributo più temuto: un’inflazione crescente che darà fuoco alle polveri
della nuova crisi». Provarci per davvero, si diceva. Con Reagan
l’inflazione scese da oltre il 10 per cento del 1981 a meno del 4 per
cento nel 1983. Per affamare «la bestia», Reagan adottò l'unico metodo
possibile: ridurre il carico massimo di imposizione fiscale sul reddito
dal 70 per cento del 1980 al 28 per cento del 1986. La spesa non
relativa alla Difesa passò dal 4,7 per cento del Pil del 1980 al 3,1
per cento del 1988. Con la Thatcher, poi, l’aliquota fiscale massima
sui redditi scese da oltre l'80 per cento, al 40. «I rivoluzionari
cambiamenti politici che si sono prodotti negli Stati Uniti e in Gran
Bretagna sotto Ronald Reagan e Margaret Thatcher - ha scritto Feldstein
- comportarono tali progressi radicali che oggi non è più pensabile
fare dietrofront». Reagan e la Thatcher, dunque, ci provarono davvero,
e ci riuscirono. Fecero delle riforme vere; dimostrarono che fare
riforme vere si può. Ma erano, a loro volta, statisti veri.
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