editoriale

La crisi economica

linee guida per capirla e guardarsene


di Raffaello Volpe
ItalianiLiberi  | 25/05/2009

 



PREMESSE

In questi giorni abbiamo assistito al summit tenutosi a Torino nelle lussuose sale del Castello di San Valentino di 40 rettori provenienti da 19 paesi di tutto il mondo per confrontarsi sui temi dell'economia, dell'etica, dell'ecologia e dell'energia. La sessione dedicata all’economia è stata presieduta da Mario Monti. La dichiarazione che ne è seguita è stata infine consegnata alla presidenza del Consiglio in vista del G8 dei capi di Stato che si riunirà a luglio all'Aquila. Tutto bene, si direbbe, a parte il fatto che i Rettori delle Università non sono scelti per ragioni scientifiche, ma politiche.
Di fatto le cose non sono per nulla semplici. È curioso che accanto a Pei Gang, che ha presieduto la sessione sull’etica, vi sia un Mario Monti, che molti ricorderanno come ex commissario UE costretto a dimettersi insieme a tutti gli altri membri della Commissione a causa di un “buco di  bilancio”, ma soprattutto come consulente della Goldman Sachs, il nome della banca che ricorre molto spesso nelle cosiddette privatizzazioni delle aziende statali nazionali, quelle svendute a prezzi molto più bassi del loro effettivo valore. Di fronte agli scontri di protesta contro il summit di Torino ci rendiamo conto che si tratta di una protesta contro il G8 che si terrà prossimamente a l’Aquila. In effetti, ovunque vi sia un G8, c’è sempre una manifestazione di contestazione. Come nei G8 precedenti, colpiscono due aspetti degli avvenimenti di Torino: il primo è la riduzione dei manifestanti a criminali sfascia tutto,  una comoda semplificazione della realtà; il secondo è che nessuno dice che il vero motivo delle proteste è la globalizzazione del mercato mondiale, ossia l’unificazione delle economie sotto il dominio di multinazionali senza bandiera i cui disastri sono sotto i nostri occhi. Di fatto i leader mondiali vogliono ignorare qualsiasi preoccupazione dell’opinione pubblica perché  il loro scopo è quello di proseguire sulla stessa strada che nel 2008 ci ha condotti a una crisi ben più grave di quella del 1929.
La preoccupazione invece aumenta nel constatare che economisti e politici si sono abituati a trattare con un mondo irreale, da loro stessi creato quasi come maschera carnevalesca. L’uso frequente della parola “fiducia”, per esempio, in un contesto mondiale in profonda crisi economica; il richiamo ossessivo all’ "ottimismo” per inculcarci il dovere di spendere denaro di cui non disponiamo o che il buon senso ci indurrebbe a risparmiare; addirittura la stranezza di inserire a tutti i costi i “sentimenti” nelle questioni finanziarie, come se si potesse umanizzare la fredda realtà dei numeri; infine, l’uso dello “stress test”, “creato” per valutare la solidità delle banche, ma di fatto  architettato dalle banche per rassicurarci, a dispetto dei nostri fondati sospetti sulla loro malafede, è  l’apice della cosiddetta “finanza creativa”, quella che (fatti salvi i poteri nascosti che non conosciamo) ha fatto crollare l’economia mondiale.
Anche la definizione di finanza “creativa” assolve alla funzione di “deviare” la nostra attenzione dalla effettiva natura delle cose. Perché invece di definirla “finanza creativa” non la chiamiamo “finanza criminale”? Anzi, perché non si fanno i nomi dei veri criminali responsabili di questa crisi mondiale? E perché, invece di utilizzare una definizione così simpatica come “stress test”, non se ne utilizza una come “crash test”? Io non so se si possa definire “normale” sovrapporre il senso di un collaudo per testare la resistenza di una macchina a quello della capacità di fallimento di una banca; possibilità, quest’ultima, che, come minimo, comporterebbe rischi ben più gravi. Vista la portata di questa crisi mondiale, nonostante la tentazione sia forte, faremo a meno di spedire una banca a duecento chilometri orari contro un muretto di cemento.
La conclusione è quindi quella di trovarci di fronte a una ridicola mascherata, con conseguenze tuttavia perfino più gravi di quelle che supponiamo. Perché, infatti, nessuno dei nostri governanti  ha voluto spiegarci il senso vero di quello che sta accadendo? E per esempio: cosa vuol dire esattamente la parola “globalizzazione”?

ECONOMIA PSICOCRIMINALE

Il sistema economico mondiale ha affrontato rapide e radicali trasformazioni a partire soprattutto dalla fine dell’Ottocento, per poi subire due accelerazioni improvvise, di cui una negli anni Settanta e l’altra negli anni Novanta del secolo scorso. Le recenti crisi economiche mondiali verificatesi nel 2001 e nel 2008 non sono state altro che la conseguenza inevitabile di quei cambiamenti. Il meccanismo alla base di tutto è stata la pervasività nel modello culturale globale dell’idea democratico-comunista di uguaglianza. L’aver accettato il principio assoluto che tutto debba essere uguale ha fatto sì che non vi fosse più distinzione fra l’idea di Soggetto e quella di Oggetto, rendendo interscambiabili significati e valori anche per quanto riguarda le strutture basilari dell’economia.
La trasformazione dell’economia mondiale da una prevalentemente di “profitto” a una di “rendita” ha contribuito a creare le premesse concrete per la creazione di titoli irreali, utili a realizzare enormi profitti in brevissimo tempo ma dagli effetti devastanti perché pericolosamente lontani dalla economia reale. Fra i tanti esempi che si possono citare, vi sono quelli delle “cartolarizzazioni” o anche dei cosiddetti “titoli salsiccia”, quotati in tutte le borse mondiali e nei quali, oltre ad altri titoli di aziende floride o in attivo, sono stati inseriti titoli pericolosi come i subprime, questi ultimi costituiti da mutui o semplici prestiti bancari. La corsa all’indebitamento fu favorita nel 2002 dai tassi di sconto (il costo del denaro) ridotti al minimo, dopo la tragica vicenda delle Torri Gemelle, e adottati per rimettere in moto l’economia senza soffermarsi troppo sul particolare rilevante se chi chiedeva un prestito sarebbe stato in grado di restituirlo. Subprime significa esattamente questo: che chi si indebita ha basse probabilità di restituire quanto ottenuto rispetto a chi, statisticamente, lo restituirebbe senza problemi. Il successivo rialzarsi del costo del denaro e i prestiti erogati (per più del 90% dei casi a tasso variabile) a chi difficilmente ce l’avrebbe fatta, hanno condotto al  collasso il sistema economico mondiale; oltre al fatto che nel frattempo questi debiti-crediti (nel senso che nel loro insieme garantivano nel tempo un reddito per le banche che li avevano generati o li possedevano) erano stati “impacchettati” e venduti ad altre banche. Le cartolarizzazioni sono infatti una cessione di un insieme di attività di natura finanziaria (che fungono da garanzia sottostante) da parte di un soggetto economico a un altro soggetto (SPV), che per acquistarle si finanzia attraverso l’emissione di titoli (ABS) negoziabili sul mercato. La condizione dei subprime di essere due cose nello stesso momento: un debito iniziale per mutuo da saldare (o altro tipo di credito concesso) ma anche un investimento in borsa, ritrasformato nuovamente in prestito con tanto di pagamento di capitale e interessi ― questa volta concesso da chi decideva di investire negli ABS ― è la prova dell’ambiguità potenzialmente truffaldina sottostante non a un caso particolare ma a tutta l’impalcatura. Era evidente (o avrebbe dovuto essere evidente) che prima o poi i pagamenti non effettuati dai debitori dei mutui avrebbero fatto crollare il tutto. Nel frattempo i passaggi per trasformazione erano stati talmente tanti, assieme agli “spacchettamenti” e ai “rimpacchettamenti” degli stessi elementi, che alla fine si è giunti a non sapere più nemmeno cosa vi fosse in certe azioni o dove i titoli iniziali fossero andati a finire. A furia di cambiare identità, l’identità si perde. È significativo che qualsiasi titolo che contenesse un subprime, o vi fosse indirettamente collegato, alla fine fosse denominato “toxic bond”. Dal 2007 all’autunno del 2008, non appena si è capito che gran parte dei debiti non sarebbe stata restituita, i subprime sono scesi in caduta verticale, trascinando in fallimenti a catena le banche d’investimento più importanti, che avevano speculato su quei titoli. I subprime garantivano infatti alti rendimenti in brevissimo tempo; era questo che faceva di questi titoli un oggetto tanto desiderato dagli speculatori: guadagnare tanto in pochissimo tempo, anche a costo di correre altissimi rischi finanziari.
Con i “titoli salsiccia”, invece, si è assistito a un ulteriore passo “evolutivo” nella “creatività”: quello di aver “insaccato” non solo mutui sani con mutui a rischio di insolvenza, come nei subprime, considerando il tutto “ugualmente” mescolabile, ma appunto titoli di una certa tipologia (subprime) con titoli (di aziende floride o altro ancora…) che con i primi non avevano nulla a che fare. Il crollo dei subprime ha trascinato anche i titoli sani, di modo che aziende floridissime si sono trovate nel baratro del fallimento.
Il peggio però non si era ancora visto. Mancava il gradino più alto del gioco d’azzardo: i “prodotti derivati”, ossia prodotti dal valore ipotetico in quanto “derivato” da quello di un prodotto o di una attività sottostante. Un facile esempio è quello dei prodotti derivati nel campo della compravendita del petrolio, giocando sul fatto che l’acquisto finale veniva rimandato nel tempo a un prezzo prestabilito. Allo scadere del termine fissato il prezzo vero di mercato poteva cambiare salendo o abbassandosi, ma quello ipotizzato in partenza restava, determinando così o un rimborso della “differenza-perdita” o uno “sconto-vincita” al giocatore di borsa. Il rialzo dei prezzi del petrolio nel 2008 è stato provocato da questo “strumento finanziario” dall’apparenza allegra. Fra i derivati, il peggiore di tutti è il titolo CPDO, legato in maniera inversamente proporzionale ai titoli CDS, a loro volta pensati per coprirsi dai rischi d’insolvenza di un determinato soggetto (vedi i subprime, per esempio). Con i CPDO, essendo elevato il rischio legato all’andamento della fiducia i un certo soggetto economico, i guadagni o le perdite possono giungere a 10-15 volte rispetto al costo iniziale di questi derivati. In questo caso, amplificandosi di molto l’azzardo rispetto al rischio di base, il delirio giunge al suo massimo fin qui rilevato. Che io sappia, a parte lo studio realizzato sulla quantità di testosterone nel sangue dei giocatori di borsa e le analogie con il giocatore d’azzardo, non si è fatta nessuna ricerca di tipo psichiatrico e nessuno si azzarda a dire la verità: si tratta di una patologia, la cui più pericolosa caratteristica è la compulsività del gesto. Se questi soggetti non vengono allontanati dai posti nei quali si trovano (cosa che non ci risulta sia stata fatta), tutte le premesse perché si ripeta quanto già avvenuto continueranno a sussistere.

I SACERDOTI DELLE AGENZIE DI RATING

Un altro degli effetti più vistosi di questa generale distruzione dei significati, è quello di una crescente corruzione, cognitiva ed etica, del sistema sociale, una corruzione che si manifesta mano a mano che si afferma l’idea che tutto debba essere “uguale”. In assenza di una distinzione coerente dei ruoli, la corruzione, che ha in sé stessa l’annullamento patologico della distinzione logica e gerarchica di ruoli e significati, si è diffusa a tal punto da distruggere i gangli nevralgici della struttura sociale nella sua organicità. Con la progressiva degenerazione in forme patologiche del comportamento degli individui, si è assistito a comportamenti simili anche in campo economico. La nascita delle agenzie di rating, sorte non a caso nel momento in cui la corruzione cominciava a manifestarsi (fine ‘800 inizi ‘900), andrebbe interpretata come uno dei segnali degenerativi della vita economica mondiale, che potrebbe e dovrebbe essere interpretata soprattutto attraverso questa chiave di lettura. Giulio Sapelli accenna al fatto che esiste una “teoria delle aspettative” ma che non esiste una “teoria del rischio”. A me sembra che in economia manchi soprattutto una “teoria psichiatrica del rischio”, da poter eventualmente collegare agli studi sul comportamento di gruppo.

La convinzione ampiamente diffusa che l’economia possa e debba espandersi all’infinito, è uno dei maggiori segnali patologici. E la prova che non è solo chi opera nella realtà economica ad essere soggetto a psicosi, è data dal fatto che più o meno tutti, sia investitori che operatori, considerano il “profitto” come unico o quasi unico obiettivo dell’ esistenza. E’ evidente che il consumo e la produzione non possono essere illimitati; pertanto sembra di trovarsi di fronte a quella patologia che conosciamo come “espansione della personalità” nel folle quando non è più in grado di percepire i propri limiti fisici in quanto non è più in grado di comprenderne quelli simbolici. Colpisce anche, oltre la rapidità incalzante degli avvenimenti che trova una sua causa nella “velocità” della tecnologia, il fatto che alle realtà economiche vengano sovrapposte altre identità, creando le sembianze di un gigante spaventoso perché senza volto, ma certamente dai piedi d’argilla. Patrick Bonazza ha ben individuato il ruolo determinante giocato nella questione “velocità” dalla  tecnologia informatica. La velocità raggiunta dalle macchine è stata tale da creare una differenza fra il volume dell’attività finanziaria mondiale e la somma di tutte le produzioni nazionali del pianeta (il PIL) di tre contro uno. Anche il calcolo delle probabilità applicato a strumenti economici quali titoli o obbligazioni, in quanto possibili erogatori di futuri profitti e plusvalenze, ha contribuito nel passaggio da un’economia reale a una irreale, tanto più disastrosa quanto più le macchine ne hanno determinato una rapidissima evoluzione. Non è stata la “velocità” del denaro o del rating (come afferma per esempio Pierangelo Dacrema), ad aver generato il crollo economico mondiale, ma la velocità della tecnologia, di gran lunga superiore alla velocità del pensiero. Denaro e rating, però, per quanto mal concepiti, sono soltanto strumenti del pensiero: è l’avidità, invece, il sintomo di una malattia grave. Viviane Forrester è probabilmente l’analista che si è avvicinata più di tutti, forse perché dotata di maggiore coraggio, al nocciolo della questione: ha capito che le scommesse sono l’unica realtà vera dei mercati e che, dietro le maschere del calcolo “virtuale” o della “competitività”, si nasconde una mentalità criminale e dittatoriale, che persegue esclusivamente il profitto. Sorprendente il modo, descritto da Viviane Forrester,di fare statistica sulle persone che lavorano e i disoccupati ingaggiati dallo Stato, questi ultimi costretti ad accettare lavori sottopagati per non perdere gli assegni di disoccupazione. In questa operazione si vede bene la “devianza” mentale del potere e quanto sia sofisticato il suo modus operandi nel celare la realtà. Potremmo parlare in questo caso di “statistica virtuale”.
È questo modo allucinato di pensare, che si fonda sempre sull’idea che ogni cosa sia uguale ― che “le mele si possano sommare con le pere” ― ad aver generato una situazione nella quale anche il gruppo (ma governanti e potenti hanno la maggiore responsabilità) si è convinto di potersi “espandere” senza limiti. Si tratta di una “espansione” che trova sfogo nella rappresentazione di uno spazio illimitato, anch’esso “virtuale”, dove il “sommare”, l’aggiungere, il crescere, è divenuto la regola base di un Ego altrettanto ipertrofico. Le multinazionali, per esempio, man mano che si ingrossano, tendono a licenziare, a chiudere aziende anche floride, aumentando il profitto ( è lo stesso meccanismo per il quale oggi la Fiat, avendo accumulato grosse perdite, compra altre aziende più grosse di lei in fallimento, mettendo sulla strada migliaia di operai). E’ un pensiero univoco che guida, attraverso quello economico, la politica mondiale e del quale l’unificazione europea è il maggiore esempio. Le Nazioni, per quanto diverse, si possono e si debbono sommare, “unire”, nella convinzione allucinata che analogamente anche le rispettive economie non possano crollare; esattamente il contrario di quello che oggi si sta verificando (diversi paesi dell’UE sarebbero già falliti se non fossero stati alimentati dal Fondo monetario mondiale). La eliminazione della distinzione fondativa fra Soggetto e Oggetto, che è alla base del sistema logico, così come di ogni cultura e dell’identità stessa dell’essere umano, ha comportato esiti devastanti principalmente dal punto di vista cognitivo, avendo compromesso la capacità di distinguere coerentemente le differenze presenti nella realtà e quindi la capacità stessa di previsione in funzione della sopravvivenza. Qualsiasi psichiatra lo sa bene: l’individuo psicotico “somma” le realtà con cui ha a che fare perché non ne percepisce né differenze né dimensioni.

Se esiste una psicosi di gruppo, questa si manifesta proprio attraverso atteggiamenti tipici della sacralità religiosa. Per comprendere, del mondo dell’economia, la “sacralità” cui mi riferisco, dobbiamo osservare le funzioni e il senso che le agenzie di rating hanno assunto nel contesto al quale appartengono. Esse rivestono una particolare importanza a causa della straordinaria funzione alla quale sono adibite: valutare la capacità percentuale di solvenza di aziende e banche e l’affidabilità di obbligazioni e titoli quotati in borsa; ma sono anche caratterizzate dal fatto di essere esse stesse delle aziende (quindi in concorrenza con le altre ), con il vantaggio considerevole che solo loro possono “valutare” tutte le altre. Considerando che i governi di tutto il mondo si sono ritirati da almeno venti anni dalla loro primaria funzione di organi di controllo, lasciandolo alle agenzie di rating, ci rendiamo conto di quanto potere si sia concentrato nelle loro mani. Sono una specie di “magistratura”, un potere a sé stante. D’altra parte se le regole sottese alla sopravvivenza nel mercato sono le stesse sia per le società di rating che per le aziende da esse “valutate”, diventa difficile, se non impossibile, sottrarsi alla loro influenza. Questo stato di cose, in base alla solita regola assoluta del ”tutto-uguale”,  ha inevitabilmente generato un sovrapporsi dei ruoli fra i vari soggetti economici direttamente coinvolti, senza che nessuno si alzasse a gridare contro il macroscopico conflitto di interessi scatenatosi nel mondo finanziario.
Sin dagli anni ’70, quando sono cominciati a scarseggiare gli investitori di borsa come loro clienti, le società di rating hanno pensato bene di procurarsene di nuovi fra quelle stesse aziende e banche che fino a quel momento erano state soltanto l’oggetto delle loro analisi, dando vita così a una vorticosa ed inarrestabile crescita della corruzione generale del sistema. Era quasi inevitabile perciò che, perduto il senso di qualsiasi limite e controllo, le società di rating passassero dal pensiero: “Io giudico l’economia”, a quello: “Io sono l’economia!”.
Il rapporto di simbiosi con le banche ha assunto una particolare gravità, visto che le banche non sono “semplici” aziende come le altre in quanto trattano un prodotto “particolare”: il denaro, ossia l’elemento alla base di qualsiasi movimento o transazione economica. Basti pensare che a un certo punto non c’è stata più “differenza” fra le agenzie di rating e le banche, tanto che per procurarsi sempre maggiori profitti si sono messe a lavorare insieme per “creare” quei famosi titoli che infine  hanno fatto crollare il mercato mondiale. ( Ben tre piccolissimi proprietari d’azienda italiani si sono suicidati in questi giorni a causa della crisi economica; finora l’ha fatto soltanto uno dei più grandi finanzieri americani, e nessuno (ripeto: nessuno) delle agenzie di rating è stato chiamato dalla giustizia di nessun paese del mondo a rendere conto del proprio comportamento.)

È anche significativo che la perdita dei clienti abituali (investitori di borsa e azionisti) delle società di rating negli anni ’70, sia stata causata dalla “democratica” macchina fotocopiatrice. La possibilità di fotocopiare un foglio, che documenta una qualsiasi valutazione di una determinata realtà economica emessa da un’agenzia di rating, ha reso inutile l’acquisto di un’opinione che fino a quel momento era stata invece importante proprio per gli investitori. Non aveva più senso interpellare le agenzie del rating, dal momento che era possibile fotocopiare e divulgare con tanta facilità documenti così sintetici. Le agenzie di rating, per il potere loro conferito, nel valutare una determinata realtà la trasformano inevitabilmente sempre in qualcos’altro.
La caratteristica di “creatore di realtà” del rating è ulteriormente avvalorata dall’abitudine di fornire anche valutazioni non richieste, in genere negative, su aziende o titoli, al solo scopo, sotto forma di un implicito ricatto, di spingere le aziende interessate a farne richiesta e costringendole a cercare di ottenere una valutazione più positiva. Il fatto che al mondo esistano solo tre grosse società di rating, ha fatto sì che si creasse un oligopolio nel mercato.Il giudizio di rating andrebbe osservato con più attenzione proprio sotto questo aspetto. L’implicita pericolosità nel suo essere creatore di realtà diverse da quelle reali, dimostra un’insufficienza di metodo di fronte alla complessità della realtà; non si tratta, quindi, rispetto al contesto, del solo sovrapporsi pericoloso di funzioni e doveri con interessi di parte, ma di una grave superficialità di fondo nel metodo di valutazione. In realtà il rating, come già detto, nasce come un bisogno di trasparenza di fronte all’ambiguità del mondo economico, ma anche come ulteriore strumento di conoscenza della realtà economica, andando oltre alla semplificazione eccessiva di una quantificazione monetaria. Un altro aspetto poco considerato, infatti, è quello del linguaggio utilizzato nell’attribuire una maggiore o minore percentuale di insolvenza a soggetti e strumenti economici. A fronte di calcoli matematici complessi, resi in termini corrispettivi di valutazione in una scala di valori che parte da “AAA”, “BBB”, “CCC” e si conclude con “DDD”, l’abitudine delle società di rating a semplificare realtà complesse rende anche la valutazione del rating “quantitativa” quanto quella determinata dal denaro. Anche il metodo di valutazione del rating riporta ad una valutazione non oggettiva della realtà, che può anche provocare effetti imprevedibili, dovuti invece a modalità interpretative del tutto umane. Sembra di trovarsi, osservando i termini di valutazione delle agenzie di rating, ma anche quelli linguistici utilizzati nel mondo economico, come per esempio: “Subprime”, “Stock Options”,
 “ABS”, “Toxic Bond”, “Upgrading”, “Syntetic CDO”, “Downgrading” e così via, alla neolingua descritta da George Orwell in “1984”; una lingua costituita da parole brevissime e composte, ma dal significato univoco, per fare in modo che le associazioni mentali siano minori di quelle generate se invece le parole fossero distinte. L’obiettivo del potere immaginato da Orwell è quello di semplificare le possibilità d’indagine e comprensione che ogni lingua offre, con il risultato di limitare nell’individuo la comprensione della realtà, favorendo il potere nella sua volontà di dominio. Il risultato preconizzato da Orwell è quello della creazione di un linguaggio che si sarebbe tradotto in un modo di parlare a scatti, monotono e ben differenziato, producente uno stato di trance  che avrebbe limitato fortemente l’autocoscienza. Per capire che Orwell aveva previsto il percorso nel quale noi tutti siamo già inseriti, basti pensare alle immagini delle borse mondiali in attività, quando gli operatori gesticolano freneticamente pur utilizzando esclusivamente le dita delle mani. In effetti ho il serio dubbio che i “titoli”, in quanto “rappresentativi” del valore dell’azienda ma con la funzione di raccogliere investimenti, alla fine abbiano prevalso sulla realtà dell’azienda stessa. Il titolo “rappresenta”, ma non è l’azienda. Forse bisognerebbe cominciare a pensare alla possibilità di abolire il sistema mondiale delle Borse.
Dacrema afferma che il metodo di valutazione delle società di rating è valido proprio per la sua caratteristica di semplificare realtà e metodi complessi agli occhi del grande pubblico; ed è perciò dell’opinione che sarebbe utile estendere il metodo di valutazione del rating alla totalità della realtà della vita. Forse non ha compreso che è proprio il linguaggio economico ad essere irreale. È in questo che il rating si rivela per quello che è: una finzione utile alla crescente corruzione generale del sistema. Il suo essere un “semplice” predittore di possibili insolvenze da parte di aziende, banche o altro, lo pone sullo stesso piano di un sacerdote cretese di 2300 anni fa, che scrisse su una tavola di terracotta, a proposito della sua capacità di interpretare sogni: «[…] È un cretese colui che interpreta queste cose (i sogni)», pensando o facendo credere che la sola condizione di sacerdote “cretese”, insieme al fatto che Dio stesso gli aveva dato l’incarico, gli permettesse di predire il futuro addirittura “con buona fortuna”. In questo Dacrema ha ragione, quando afferma che la statistica, al più può essere utilizzata a posteriori come strumento di analisi di una determinata realtà; cioè, quando i dati sembrano essere più certi perché definitivi,  e non probabilistici come nel caso delle valutazioni utilizzate fino ad oggi. La statistica non può essere impiegata per prevedere il futuro di una qualsiasi entità economica perché il metodo di analisi è troppo semplicistico di fronte alla complessità e alla imprevedibilità della realtà: soprattutto di fronte alla complessità della condizione umana, alla quale i fattori economici sono inevitabilmente soggetti.
Tale “interscambiabilità” congenita, fra l’umano e il “disumano”, è all’origine dell’ambiguità e del fallimento in partenza dell’attività di rating, che ha messo in evidenza quello che in effetti tali agenzie non sono (enti super partes), altresì mostrando la loro vera natura, quella di entità sacrali di carattere sacerdotale. Tali strutture sacrali sono state volute e generate non solo dai detentori del potere ma anche dal “gruppo” stesso, vista la significativa risposta di Standard & Poor’s alle domande delle Commissioni parlamentari istituite per indagare sul fallimento del caso Parmalat. Alla domanda specifica su quale fosse l’effettivo valore aggiunto di un’agenzia di rating, visto il fallimento delle valutazioni sulla Parmalat, la risposta di Standard & Poor’s fu che, nonostante le contraddizioni, il rating vive ancora oggi di una richiesta a operare che nasce da investitori grossi e piccoli. In ultima analisi, la colpa sarebbe del gruppo in quanto “investitore”, che vuole credere, ma soprattutto ha bisogno di affidarsi a qualcuno più sapiente, ossia più “potente” di lui. Qui si comprende bene in quale forma di sfruttamento i piccoli investitori siano percepiti dai grandi manipolatori del potere finanziario. Ci hanno fatto credere che l’economia sia una “scienza”, con tanto di premi Nobel, e dunque nessuno ritiene di essere competente senza l’aiuto dell’esperto. Dateci un “aiutino”!


LO STRUMENTO DELLA MONETA

La funzione delle agenzie di rating, che si sono poste sin dalla loro nascita come mediatori fra i vari soggetti economici, è stata quella, attraverso la “potenza” mediatrice della propria parola, di acquisire progressivamente sempre più potere. Come i sacerdoti di una qualsiasi religione, gli agenti del rating mediano ancora oggi fra le istituzioni economiche mondiali più potenti (le banche di emissione del denaro, per esempio, o le multinazionali, assieme alle agenzie di rating, sono gli attori principali della globalizzazione) e il gruppo dei cittadini-investitori (i fedeli). In questo rapporto fra l’Istituzione economica-Dio e gli investitori-credenti, il denaro-moneta ha la funzione, (in analogia con lo scambio delle donne fra maschi) di strumento di comunicazione. Ma il denaro ha tutte le caratteristiche di una forma primitiva di comunicazione, in quanto forma primaria di scambio. Esprimendo la moneta un valore, esso è solo quantitativo in quanto stabilisce implicitamente o la positività o la negatività di ciò che viene di volta in volta considerato. La moneta si può definire uno strumento primitivo di comunicazione perché risponde a una forma cognitiva oppositiva, la più semplice e immediata: giorno-notte, acqua-fuoco, uomo-donna, bene-male.
È questo il motivo per il quale il denaro non dovrebbe mai essere inteso come forma di “conoscenza” della realtà. Al contrario, ciò che avviene in ambito economico è stato esteso anche alla realtà circostante a causa dell’idea comunista che tutto deve essere riconducibile a una spiegazione economica. Il denaro invece andrebbe considerato semplicemente per quello che è: un “limitatore” nella rappresentazione della realtà. Il denaro non può generare “conoscenza” perché, azzerandole, non permette di vedere le differenze. Tutti gli oggetti e  strumenti creati dall’uomo sono portatori di simboli-significati;  non sono mai soltanto la concreta materia di cui sono fatti ma anche la rappresentazione significativa che l’uomo vi attribuisce. L’economia, esprimendo invece il valore dell’oggetto in termini puramente quantitativi, ne distrugge tutta la carica di umanità.
Il posizionamento del denaro in cima alla scala dei valori ha trasformato il denaro nello strumento principale per conoscere e cambiare la realtà, assumendo così tutte le caratteristiche della patologia mentale, di una psicosi di gruppo. Il semplice possesso del denaro (in quanto al suo essere sogno identificativo collettivo…) non può garantire la sopravvivenza del gruppo, né tanto meno può salvare il singolo individuo dalla morte. Il delirio è tutto qui, nell’aver trasformato l’economia, di cui il denaro è il carburante, in una religione salvatrice. Gli Amministratori Delegati di aziende e banche, tutti quei manager che non si sono fatti scrupolo di guadagnare cifre mostruose, che nessuna persona normale sarebbe peraltro neanche in grado di immaginare, non sono solo etichettabili come individui avidi ma come soggetti pericolosi per la collettività.

                                                     
Si pone anche in questa sede, ancora una volta, il grave problema della fiducia. La verità della “Parola” vacilla come i diagrammi aziendali. Se, normalmente, nel vissuto quotidiano la fiducia che concediamo alle persone che amiamo o consideriamo positivamente, indica un aspetto umano impossibile da quantificare, ciò è dovuto al fatto che essa si fonda sulla verità della parola. Solo la parola coerente risponde, sul piano cognitivo e quindi della relazione umana, al bisogno dell’uomo di linearità nel pensiero, in una stretta corrispondenza logica ― senza la quale l’uomo stesso non sopravvivrebbe ― fra la realtà e la sua rappresentazione. L’umanità dell’uomo consiste unicamente in questo, nella sua capacità di ragionare, di usare la logica.
Una volta stabilita la logica come modalità essenziale nell’uomo per se stesso, ci si rende conto che questo principio di necessità ha influenzato tutto della sua vita: dalla elaborazione di fronte ai bisogni primari fino al sentire più profondamente complesso dell’anima. Anche i sentimenti hanno bisogno per esistere di un processo logico che sia lineare.
In economia invece, a causa della capacità del denaro di ridurre il tutto dell’esistenza a pura quantità-oggetto, la parola “fiducia” assume tutt’altro significato. Un’azienda o una banca sono degne di “fiducia” solo se sono in grado di garantire un profitto, per il quale, naturalmente, è gioco forza non preoccuparsi eticamente di come ottenerlo. Anche la “fiducia” viene ridotta a pura quantità numerica, la stessa che misurano le agenzie di rating. Solo così possiamo capire i licenziamenti in massa che hanno caratterizzato l’economia mondiale negli ultimi venti anni, e che sono stati adottati, non per salvaguardare le aziende dal fallimento, ma per creare altissimi e immediati profitti attraverso la sopravvalutazione delle loro azioni. Si delinea qui un altro sintomo patologico del mondo dell’economia, rilevabile nella figura dell’Amministratore Delegato o del manager di multinazionali, banche o aziende. Dai primi anni Novanta, al fine di spingere i manager a realizzare maggiori dividendi a favore dei proprietari azionisti, si è sovvertita una regola fondamentale, trasformando il manager in proprietario di quella stessa azienda nella quale era stato assunto allo scopo di guidarla. Le Stock Options consistono nella possibilità di acquisire, da parte dell’Amministratore Delegato, una certa quantità di azioni dell’azienda che potrà rivendere  solo dopo un certo periodo di tempo. Fino a quel momento, la regola imponeva che i ruoli degli azionisti proprietari e del gestore dell’azienda, l’Amministratore Delegato, fossero ben distinti, evitando così qualsiasi possibile conflitto di interessi. Il meccanismo di uguaglianza-sovrapposizione, come si vede, è anche in questo caso il medesimo. Con il sistema delle Stock Options, gli Amministratori Delegati, pur di garantire enormi guadagni ai proprietari azionisti per garantirli così a se stessi, non si sono posti nessun problema nel provocare nel tempo il fallimento delle aziende da cui erano stati assunti. L’assolutezza con la quale questi uomini hanno “pensato” il denaro, li ha portati a distruggere, senza neanche rendersene conto, l’intera economia mondiale, mentre l’Economia diventava di fatto, attraverso il denaro, “misura” di tutte le cose.

L’economia, dunque, misura il mondo attraverso il valore universale del denaro. Il “valore” non si esprime per qualità ma per quantità, garantendo l’uniformità dell’idea di eguaglianza: tanto in democrazia quanto nelle dittature comuniste, qualità e quantità coincidono. Tutto è misurabile con il denaro; tutto e tutti, dunque, sono riducibili a un “eguale” ( da aggettivo è diventato sostantivo) totalitario, contribuendo a invertire il normale rapporto fra Soggetto e Oggetto. 

PUBBLICITÀ

«Nessuno è più schiavo di chi si ritiene libero senza esserlo»

             GOETHE           

In questo ibridismo di realtà fra loro differenti, la pubblicità è stata la feroce, compiaciuta ancella della visione economicistica del mondo imposta a tutti. La complice silenziosa e obbediente dell’odio, la nemica di tutti noi. A partire dalla fine dell’Ottocento fino ai giorni nostri, i principi economici, attraverso la pubblicità, si sono infiltrati in ogni parte della società e hanno contribuito a rendere l’oggetto-prodotto più importante dell’individuo-soggetto, riducendo quest’ultimo a semplice “consumatore” e scavalcando qualsiasi regola etica pur di promuovere la vendita del prodotto. Addirittura negli anni Ottanta il prodotto è stato trasformato in rappresentazioni divinizzate, allucinate e allucinanti. Di fronte al prodotto-star (come lo chiama Jacques Seguela), l’individuo, dopo esser divenuto lui stesso un oggetto-prodotto, viene ridotto alla condizione di un nulla-star senza senso, replicato dall’infinito pubblicitario. Molti anni or sono Guido Ceronetti mise in luce la capacità distruttiva della velocità tecnologica che, nel riprodurre ossessivamente ciò che  viene rappresentato come “evento” da consumarsi collettivamente, rimuove qualsiasi ricordo fino alla totale perdita della memoria. La nostra è una società che non ha più la forza di guardare in  profondità la propria memoria storica, né collettiva né individuale. Ma senza memoria non ha senso neanche battersi per esistere. Oggi, infatti, non bastando più nessuna forma di proiezione fantastica nello spazio siderale (“tutto ha un inizio, tutto ha una fine”), assistiamo a una volgarizzazione universale: volgarità e violenza sono modelli di comportamento primari, che tutti quindi possono comprendere. Tutti “uguali” di fronte alla violenza, tutti uguali di fronte alla minaccia che si può volgere contro di noi in qualsiasi momento. Tutti uguali nella dimenticanza e nella paura.
Ancora una volta Viviane Forrester mette giustamente l’accento sul problema del prodotto: se le multinazionali posseggono tutto, perché dovrebbero preoccuparsi delle persone, che consumerebbero comunque i loro prodotti? La trasformazione dell’individuo in prodotto-oggetto è l’avvenimento “sponsale” della storia dell’umanità; equivale a una trasformazione del gruppo in “femmina” da possedere, dominare, assoggettare, stuprare; infine uccidere quando verrà il momento. La propaganda che, in perfetto stile orwelliano, ha caratterizzato la presentazione-avvento dell’unione europea con il tripudio, circondato di stelle, del dominio ugualitario di una “moneta”, è la prova che l’interscambiabilità cela come vero obiettivo quello di trasformare il maschio-soggetto in femmina-oggetto. Da una parte si riduce l’individuo a uno stato regressivo infantile della personalità, affinché, sottomettendosi, accetti il rapporto di punizione-premio adottato dal potere: paura, insicurezza, immaturità perenne, passività, inutilità della propria parola, annullamento dell’io nell’uguaglianza. Dall’altra, il sempre maggiore sincretismo economico e culturale, segno di un accentramento del potere che occulta la sua vera meta: il dominio mondiale. Siamo alla conclusione di una lunga, terribile lotta per il dominio assoluto su tutto e su tutti. Comprendiamo così il vero senso del misterioso termine “globalizzazione”: se dicessimo “mondializzazione” sarebbe più chiaro, ma è la stessa cosa. Alla vigilia delle elezioni europee, per esempio, nulla è stato finora detto dai politici di quello che l’unione europea è veramente, né dei problemi che si pongono per la sua governabilità. L’11 maggio del 2009, in vista della ratifica del trattato di Lisbona anche da parte dei Paesi più riottosi, come la Cecoslovacchia o l’Islanda, Trichet, il governatore della BCE, ha affermato, con la solita ottusa sicumera, che si è quasi a una svolta rispetto all’attuale crisi economica. Illusi: come se l’unione politica forzata e definitiva degli Stati  europei, possa essere corroborante al punto da rafforzare l’economia europea e mondiale in un colpo solo. La verità invece è che fingendo che Nazioni, culture, economie, valori, siano tutti uguali, si stanno ponendo le basi di una caduta rovinosa di tutto e di tutti; una caduta che verrà innescata chissà da quale insignificante episodio, “il battito delle ali di una farfalla”, ma dal devastante effetto domino.
Dopo le elezioni europee del 6 e 7 giugno sarà impossibile qualsiasi marcia indietro. La “ velocità” di quelle stesse macchine che i potenti hanno considerato solo in funzione del raggiungimento del potere assoluto, farà il resto, rendendo improbabile qualsiasi tentativo di salvataggio del mondo così come oggi lo conosciamo.

Bibliografia:

Bonazza Patrick: I Banchieri non pagano mai il conto
Sperling & Kupfer Milano 2008
   
Dacrema Pierangelo: La cri$i della fiducia – Le colpe del rating nel crollo della finanza globale
Etas, Milano 2008

Forrester Viviane: Una strana dittatura- Come resistere all’orrore economico
Ponte alle Grazie, Milano 2000

Sapelli Giulio:     La crisi economica mondiale
Bollati Boringhieri, Torino 2008

Toaff Ariel:      Ebraismo virtuale
Rizzoli, Milano 2008

Carl Schmitt: la tirannia dei valori
Adelphi Editore, Milano 2008

George Orwell: 1984
Oscar Mondadori, Milano 2008

Elio Lannutti: La Repubblica delle banche
Arianna Editrice, Bologna 2008

Paolo Landi: Volevo dirti che è lei che guarda te
Bompiani, Milano 2006

Elias Canetti: Potere e sopravvivenza
Adelphi, Milano 2004


 
 
 
 
 

 

 
 
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