editoriale
La crisi economica linee guida per capirla e guardarsene
di Raffaello Volpe ItalianiLiberi | 25/05/2009
PREMESSE
In
questi giorni abbiamo assistito al summit tenutosi a Torino nelle
lussuose sale del Castello di San Valentino di 40 rettori provenienti
da 19 paesi di tutto il mondo per confrontarsi sui temi dell'economia,
dell'etica, dell'ecologia e dell'energia. La sessione dedicata
all’economia è stata presieduta da Mario Monti. La dichiarazione che ne
è seguita è stata infine consegnata alla presidenza del Consiglio in
vista del G8 dei capi di Stato che si riunirà a luglio all'Aquila.
Tutto bene, si direbbe, a parte il fatto che i Rettori delle Università
non sono scelti per ragioni scientifiche, ma politiche. Di fatto le cose non sono per nulla semplici. È curioso che accanto a Pei Gang,
che ha presieduto la sessione sull’etica, vi sia un Mario Monti, che
molti ricorderanno come ex commissario UE costretto a dimettersi
insieme a tutti gli altri membri della Commissione a causa di un “buco
di bilancio”, ma soprattutto come consulente della Goldman Sachs,
il nome della banca che ricorre molto spesso nelle cosiddette
privatizzazioni delle aziende statali nazionali, quelle svendute a
prezzi molto più bassi del loro effettivo valore. Di fronte agli
scontri di protesta contro il summit di Torino ci rendiamo conto che si
tratta di una protesta contro il G8 che si terrà prossimamente a
l’Aquila. In effetti, ovunque vi sia un G8, c’è sempre una
manifestazione di contestazione. Come nei G8 precedenti, colpiscono due
aspetti degli avvenimenti di Torino: il primo è la riduzione dei
manifestanti a criminali sfascia tutto, una comoda
semplificazione della realtà; il secondo è che nessuno dice che il vero
motivo delle proteste è la globalizzazione del mercato mondiale, ossia
l’unificazione delle economie sotto il dominio di multinazionali senza
bandiera i cui disastri sono sotto i nostri occhi. Di fatto i leader
mondiali vogliono ignorare qualsiasi preoccupazione dell’opinione
pubblica perché il loro scopo è quello di proseguire sulla stessa
strada che nel 2008 ci ha condotti a una crisi ben più grave di quella
del 1929. La preoccupazione invece aumenta nel constatare che
economisti e politici si sono abituati a trattare con un mondo irreale,
da loro stessi creato quasi come maschera carnevalesca. L’uso frequente
della parola “fiducia”, per esempio, in un contesto mondiale in
profonda crisi economica; il richiamo ossessivo all’ "ottimismo” per
inculcarci il dovere di spendere denaro di cui non disponiamo o che il
buon senso ci indurrebbe a risparmiare; addirittura la stranezza di
inserire a tutti i costi i “sentimenti” nelle questioni finanziarie,
come se si potesse umanizzare la fredda realtà dei numeri; infine,
l’uso dello “stress test”, “creato” per valutare la solidità delle
banche, ma di fatto architettato dalle banche per rassicurarci, a
dispetto dei nostri fondati sospetti sulla loro malafede, è
l’apice della cosiddetta “finanza creativa”, quella che (fatti salvi i
poteri nascosti che non conosciamo) ha fatto crollare l’economia
mondiale. Anche la definizione di finanza “creativa” assolve alla
funzione di “deviare” la nostra attenzione dalla effettiva natura delle
cose. Perché invece di definirla “finanza creativa” non la chiamiamo
“finanza criminale”? Anzi, perché non si fanno i nomi dei veri
criminali responsabili di questa crisi mondiale? E perché, invece di
utilizzare una definizione così simpatica come “stress test”, non se ne
utilizza una come “crash test”?
Io non so se si possa definire “normale” sovrapporre il senso di un
collaudo per testare la resistenza di una macchina a quello della
capacità di fallimento di una banca; possibilità, quest’ultima, che,
come minimo, comporterebbe rischi ben più gravi. Vista la portata di
questa crisi mondiale, nonostante la tentazione sia forte, faremo a
meno di spedire una banca a duecento chilometri orari contro un muretto
di cemento. La conclusione è quindi quella di trovarci di fronte a
una ridicola mascherata, con conseguenze tuttavia perfino più gravi di
quelle che supponiamo. Perché, infatti, nessuno dei nostri
governanti ha voluto spiegarci il senso vero di quello che sta
accadendo? E per esempio: cosa vuol dire esattamente la parola
“globalizzazione”?
ECONOMIA PSICOCRIMINALE
Il sistema
economico mondiale ha affrontato rapide e radicali trasformazioni a
partire soprattutto dalla fine dell’Ottocento, per poi subire due
accelerazioni improvvise, di cui una negli anni Settanta e l’altra
negli anni Novanta del secolo scorso. Le recenti crisi economiche
mondiali verificatesi nel 2001 e nel 2008 non sono state altro che la
conseguenza inevitabile di quei cambiamenti. Il meccanismo alla base di
tutto è stata la pervasività nel modello culturale globale dell’idea
democratico-comunista di uguaglianza. L’aver accettato il principio
assoluto che tutto debba essere uguale ha fatto sì che non vi fosse più
distinzione fra l’idea di Soggetto e quella di Oggetto, rendendo
interscambiabili significati e valori anche per quanto riguarda le
strutture basilari dell’economia. La trasformazione dell’economia
mondiale da una prevalentemente di “profitto” a una di “rendita” ha
contribuito a creare le premesse concrete per la creazione di titoli
irreali, utili a realizzare enormi profitti in brevissimo tempo ma
dagli effetti devastanti perché pericolosamente lontani dalla economia
reale. Fra i tanti esempi che si possono citare, vi sono quelli delle
“cartolarizzazioni” o anche dei cosiddetti “titoli salsiccia”, quotati
in tutte le borse mondiali e nei quali, oltre ad altri titoli di
aziende floride o in attivo, sono stati inseriti titoli pericolosi come
i subprime, questi ultimi costituiti da mutui o semplici prestiti
bancari. La corsa all’indebitamento fu favorita nel 2002 dai tassi di
sconto (il costo del denaro) ridotti al minimo, dopo la tragica vicenda
delle Torri Gemelle, e adottati per rimettere in moto l’economia senza
soffermarsi troppo sul particolare rilevante se chi chiedeva un
prestito sarebbe stato in grado di restituirlo. Subprime significa
esattamente questo: che chi si indebita ha basse probabilità di
restituire quanto ottenuto rispetto a chi, statisticamente, lo
restituirebbe senza problemi. Il successivo rialzarsi del costo del
denaro e i prestiti erogati (per più del 90% dei casi a tasso
variabile) a chi difficilmente ce l’avrebbe fatta, hanno condotto
al collasso il sistema economico mondiale; oltre al fatto che nel
frattempo questi debiti-crediti (nel senso che nel loro insieme
garantivano nel tempo un reddito per le banche che li avevano generati
o li possedevano) erano stati “impacchettati” e venduti ad altre
banche. Le cartolarizzazioni sono infatti una cessione di un insieme di
attività di natura finanziaria (che fungono da garanzia sottostante) da
parte di un soggetto economico a un altro soggetto (SPV), che per
acquistarle si finanzia attraverso l’emissione di titoli (ABS)
negoziabili sul mercato. La condizione dei subprime di essere due cose
nello stesso momento: un debito iniziale per mutuo da saldare (o altro
tipo di credito concesso) ma anche un investimento in borsa,
ritrasformato nuovamente in prestito con tanto di pagamento di capitale
e interessi ― questa volta concesso da chi decideva di investire negli
ABS ― è la prova dell’ambiguità potenzialmente truffaldina sottostante
non a un caso particolare ma a tutta l’impalcatura. Era evidente (o
avrebbe dovuto essere evidente) che prima o poi i pagamenti non
effettuati dai debitori dei mutui avrebbero fatto crollare il tutto.
Nel frattempo i passaggi per trasformazione erano stati talmente tanti,
assieme agli “spacchettamenti” e ai “rimpacchettamenti” degli stessi
elementi, che alla fine si è giunti a non sapere più nemmeno cosa vi
fosse in certe azioni o dove i titoli iniziali fossero andati a finire.
A furia di cambiare identità, l’identità si perde. È significativo che
qualsiasi titolo che contenesse un subprime, o vi fosse indirettamente
collegato, alla fine fosse denominato “toxic bond”. Dal 2007
all’autunno del 2008, non appena si è capito che gran parte dei debiti
non sarebbe stata restituita, i subprime sono scesi in caduta
verticale, trascinando in fallimenti a catena le banche d’investimento
più importanti, che avevano speculato su quei titoli. I subprime
garantivano infatti alti rendimenti in brevissimo tempo; era questo che
faceva di questi titoli un oggetto tanto desiderato dagli speculatori:
guadagnare tanto in pochissimo tempo, anche a costo di correre
altissimi rischi finanziari. Con i “titoli salsiccia”, invece, si
è assistito a un ulteriore passo “evolutivo” nella “creatività”: quello
di aver “insaccato” non solo mutui sani con mutui a rischio di
insolvenza, come nei subprime, considerando il tutto “ugualmente”
mescolabile, ma appunto titoli di una certa tipologia (subprime) con
titoli (di aziende floride o altro ancora…) che con i primi non avevano
nulla a che fare. Il crollo dei subprime ha trascinato anche i titoli
sani, di modo che aziende floridissime si sono trovate nel baratro del
fallimento. Il peggio però non si era ancora visto. Mancava il
gradino più alto del gioco d’azzardo: i “prodotti derivati”, ossia
prodotti dal valore ipotetico in quanto “derivato” da quello di un
prodotto o di una attività sottostante. Un facile esempio è quello dei
prodotti derivati nel campo della compravendita del petrolio, giocando
sul fatto che l’acquisto finale veniva rimandato nel tempo a un prezzo
prestabilito. Allo scadere del termine fissato il prezzo vero di
mercato poteva cambiare salendo o abbassandosi, ma quello ipotizzato in
partenza restava, determinando così o un rimborso della
“differenza-perdita” o uno “sconto-vincita” al giocatore di borsa. Il
rialzo dei prezzi del petrolio nel 2008 è stato provocato da questo
“strumento finanziario” dall’apparenza allegra. Fra i derivati, il
peggiore di tutti è il titolo CPDO, legato in maniera inversamente
proporzionale ai titoli CDS, a loro volta pensati per coprirsi dai
rischi d’insolvenza di un determinato soggetto (vedi i subprime, per
esempio). Con i CPDO, essendo elevato il rischio legato all’andamento
della fiducia i un certo soggetto economico, i guadagni o le perdite
possono giungere a 10-15 volte rispetto al costo iniziale di questi
derivati. In questo caso, amplificandosi di molto l’azzardo rispetto al
rischio di base, il delirio giunge al suo massimo fin qui rilevato. Che
io sappia, a parte lo studio realizzato sulla quantità di testosterone
nel sangue dei giocatori di borsa e le analogie con il giocatore
d’azzardo, non si è fatta nessuna ricerca di tipo psichiatrico e
nessuno si azzarda a dire la verità: si tratta di una patologia, la cui
più pericolosa caratteristica è la compulsività del gesto. Se questi
soggetti non vengono allontanati dai posti nei quali si trovano (cosa
che non ci risulta sia stata fatta), tutte le premesse perché si ripeta
quanto già avvenuto continueranno a sussistere.
I SACERDOTI DELLE AGENZIE DI RATING
Un
altro degli effetti più vistosi di questa generale distruzione dei
significati, è quello di una crescente corruzione, cognitiva ed etica,
del sistema sociale, una corruzione che si manifesta mano a mano che si
afferma l’idea che tutto debba essere “uguale”. In assenza di una
distinzione coerente dei ruoli, la corruzione, che ha in sé stessa
l’annullamento patologico della distinzione logica e gerarchica di
ruoli e significati, si è diffusa a tal punto da distruggere i gangli
nevralgici della struttura sociale nella sua organicità. Con la
progressiva degenerazione in forme patologiche del comportamento degli
individui, si è assistito a comportamenti simili anche in campo
economico. La nascita delle agenzie di rating, sorte non a caso nel
momento in cui la corruzione cominciava a manifestarsi (fine ‘800 inizi
‘900), andrebbe interpretata come uno dei segnali degenerativi della
vita economica mondiale, che potrebbe e dovrebbe essere interpretata
soprattutto attraverso questa chiave di lettura. Giulio Sapelli accenna
al fatto che esiste una “teoria delle aspettative” ma che non esiste
una “teoria del rischio”. A me sembra che in economia manchi
soprattutto una “teoria psichiatrica del rischio”, da poter
eventualmente collegare agli studi sul comportamento di gruppo.
La
convinzione ampiamente diffusa che l’economia possa e debba espandersi
all’infinito, è uno dei maggiori segnali patologici. E la prova che non
è solo chi opera nella realtà economica ad essere soggetto a psicosi, è
data dal fatto che più o meno tutti, sia investitori che operatori,
considerano il “profitto” come unico o quasi unico obiettivo dell’
esistenza. E’ evidente che il consumo e la produzione non possono
essere illimitati; pertanto sembra di trovarsi di fronte a quella
patologia che conosciamo come “espansione della personalità” nel folle
quando non è più in grado di percepire i propri limiti fisici in quanto
non è più in grado di comprenderne quelli simbolici. Colpisce anche,
oltre la rapidità incalzante degli avvenimenti che trova una sua causa
nella “velocità” della tecnologia, il fatto che alle realtà economiche
vengano sovrapposte altre identità, creando le sembianze di un gigante
spaventoso perché senza volto, ma certamente dai piedi d’argilla.
Patrick Bonazza ha ben individuato il ruolo determinante giocato nella
questione “velocità” dalla tecnologia informatica. La velocità
raggiunta dalle macchine è stata tale da creare una differenza fra il
volume dell’attività finanziaria mondiale e la somma di tutte le
produzioni nazionali del pianeta (il PIL) di tre contro uno. Anche il
calcolo delle probabilità applicato a strumenti economici quali titoli
o obbligazioni, in quanto possibili erogatori di futuri profitti e
plusvalenze, ha contribuito nel passaggio da un’economia reale a una
irreale, tanto più disastrosa quanto più le macchine ne hanno
determinato una rapidissima evoluzione. Non è stata la “velocità” del
denaro o del rating (come afferma per esempio Pierangelo Dacrema), ad
aver generato il crollo economico mondiale, ma la velocità della
tecnologia, di gran lunga superiore alla velocità del pensiero. Denaro
e rating, però, per quanto mal concepiti, sono soltanto strumenti del
pensiero: è l’avidità, invece, il sintomo di una malattia grave.
Viviane Forrester è probabilmente l’analista che si è avvicinata più di
tutti, forse perché dotata di maggiore coraggio, al nocciolo della
questione: ha capito che le scommesse sono l’unica realtà vera dei
mercati e che, dietro le maschere del calcolo “virtuale” o della
“competitività”, si nasconde una mentalità criminale e dittatoriale,
che persegue esclusivamente il profitto. Sorprendente il modo,
descritto da Viviane Forrester,di fare statistica sulle persone che
lavorano e i disoccupati ingaggiati dallo Stato, questi ultimi
costretti ad accettare lavori sottopagati per non perdere gli assegni
di disoccupazione. In questa operazione si vede bene la “devianza”
mentale del potere e quanto sia sofisticato il suo modus operandi nel
celare la realtà. Potremmo parlare in questo caso di “statistica
virtuale”. È questo modo allucinato di pensare, che si fonda sempre
sull’idea che ogni cosa sia uguale ― che “le mele si possano sommare
con le pere” ― ad aver generato una situazione nella quale anche il
gruppo (ma governanti e potenti hanno la maggiore responsabilità) si è
convinto di potersi “espandere” senza limiti. Si tratta di una
“espansione” che trova sfogo nella rappresentazione di uno spazio
illimitato, anch’esso “virtuale”, dove il “sommare”, l’aggiungere, il
crescere, è divenuto la regola base di un Ego altrettanto ipertrofico.
Le multinazionali, per esempio, man mano che si ingrossano, tendono a
licenziare, a chiudere aziende anche floride, aumentando il profitto (
è lo stesso meccanismo per il quale oggi la Fiat, avendo accumulato
grosse perdite, compra altre aziende più grosse di lei in fallimento,
mettendo sulla strada migliaia di operai). E’ un pensiero univoco che
guida, attraverso quello economico, la politica mondiale e del quale
l’unificazione europea è il maggiore esempio. Le Nazioni, per quanto
diverse, si possono e si debbono sommare, “unire”, nella convinzione
allucinata che analogamente anche le rispettive economie non possano
crollare; esattamente il contrario di quello che oggi si sta
verificando (diversi paesi dell’UE sarebbero già falliti se non fossero
stati alimentati dal Fondo monetario mondiale). La eliminazione della
distinzione fondativa fra Soggetto e Oggetto, che è alla base del
sistema logico, così come di ogni cultura e dell’identità stessa
dell’essere umano, ha comportato esiti devastanti principalmente dal
punto di vista cognitivo, avendo compromesso la capacità di distinguere
coerentemente le differenze presenti nella realtà e quindi la capacità
stessa di previsione in funzione della sopravvivenza. Qualsiasi
psichiatra lo sa bene: l’individuo psicotico “somma” le realtà con cui
ha a che fare perché non ne percepisce né differenze né dimensioni.
Se
esiste una psicosi di gruppo, questa si manifesta proprio attraverso
atteggiamenti tipici della sacralità religiosa. Per comprendere, del
mondo dell’economia, la “sacralità” cui mi riferisco, dobbiamo
osservare le funzioni e il senso che le agenzie di rating hanno assunto
nel contesto al quale appartengono. Esse rivestono una particolare
importanza a causa della straordinaria funzione alla quale sono
adibite: valutare la capacità percentuale di solvenza di aziende e
banche e l’affidabilità di obbligazioni e titoli quotati in borsa; ma
sono anche caratterizzate dal fatto di essere esse stesse delle aziende
(quindi in concorrenza con le altre ), con il vantaggio considerevole
che solo loro possono “valutare” tutte le altre. Considerando che i
governi di tutto il mondo si sono ritirati da almeno venti anni dalla
loro primaria funzione di organi di controllo, lasciandolo alle agenzie
di rating, ci rendiamo conto di quanto potere si sia concentrato nelle
loro mani. Sono una specie di “magistratura”, un potere a sé stante.
D’altra parte se le regole sottese alla sopravvivenza nel mercato sono
le stesse sia per le società di rating che per le aziende da esse
“valutate”, diventa difficile, se non impossibile, sottrarsi alla loro
influenza. Questo stato di cose, in base alla solita regola assoluta
del ”tutto-uguale”, ha inevitabilmente generato un sovrapporsi
dei ruoli fra i vari soggetti economici direttamente coinvolti, senza
che nessuno si alzasse a gridare contro il macroscopico conflitto di
interessi scatenatosi nel mondo finanziario. Sin dagli anni ’70,
quando sono cominciati a scarseggiare gli investitori di borsa come
loro clienti, le società di rating hanno pensato bene di procurarsene
di nuovi fra quelle stesse aziende e banche che fino a quel momento
erano state soltanto l’oggetto delle loro analisi, dando vita così a
una vorticosa ed inarrestabile crescita della corruzione generale del
sistema. Era quasi inevitabile perciò che, perduto il senso di
qualsiasi limite e controllo, le società di rating passassero dal
pensiero: “Io giudico l’economia”, a quello: “Io sono l’economia!”. Il
rapporto di simbiosi con le banche ha assunto una particolare gravità,
visto che le banche non sono “semplici” aziende come le altre in quanto
trattano un prodotto “particolare”: il denaro, ossia l’elemento alla
base di qualsiasi movimento o transazione economica. Basti pensare che
a un certo punto non c’è stata più “differenza” fra le agenzie di
rating e le banche, tanto che per procurarsi sempre maggiori profitti
si sono messe a lavorare insieme per “creare” quei famosi titoli che
infine hanno fatto crollare il mercato mondiale. ( Ben tre
piccolissimi proprietari d’azienda italiani si sono suicidati in questi
giorni a causa della crisi economica; finora l’ha fatto soltanto uno
dei più grandi finanzieri americani, e nessuno (ripeto: nessuno) delle
agenzie di rating è stato chiamato dalla giustizia di nessun paese del
mondo a rendere conto del proprio comportamento.)
È anche
significativo che la perdita dei clienti abituali (investitori di borsa
e azionisti) delle società di rating negli anni ’70, sia stata causata
dalla “democratica” macchina fotocopiatrice. La possibilità di
fotocopiare un foglio, che documenta una qualsiasi valutazione di una
determinata realtà economica emessa da un’agenzia di rating, ha reso
inutile l’acquisto di un’opinione che fino a quel momento era stata
invece importante proprio per gli investitori. Non aveva più senso
interpellare le agenzie del rating, dal momento che era possibile
fotocopiare e divulgare con tanta facilità documenti così sintetici. Le
agenzie di rating, per il potere loro conferito, nel valutare una
determinata realtà la trasformano inevitabilmente sempre in
qualcos’altro. La caratteristica di “creatore di realtà” del
rating è ulteriormente avvalorata dall’abitudine di fornire anche
valutazioni non richieste, in genere negative, su aziende o titoli, al
solo scopo, sotto forma di un implicito ricatto, di spingere le aziende
interessate a farne richiesta e costringendole a cercare di ottenere
una valutazione più positiva. Il fatto che al mondo esistano solo tre
grosse società di rating, ha fatto sì che si creasse un oligopolio nel
mercato.Il giudizio di rating andrebbe osservato con più attenzione
proprio sotto questo aspetto. L’implicita pericolosità nel suo essere
creatore di realtà diverse da quelle reali, dimostra un’insufficienza
di metodo di fronte alla complessità della realtà; non si tratta,
quindi, rispetto al contesto, del solo sovrapporsi pericoloso di
funzioni e doveri con interessi di parte, ma di una grave
superficialità di fondo nel metodo di valutazione. In realtà il rating,
come già detto, nasce come un bisogno di trasparenza di fronte
all’ambiguità del mondo economico, ma anche come ulteriore strumento di
conoscenza della realtà economica, andando oltre alla semplificazione
eccessiva di una quantificazione monetaria. Un altro aspetto poco
considerato, infatti, è quello del linguaggio utilizzato
nell’attribuire una maggiore o minore percentuale di insolvenza a
soggetti e strumenti economici. A fronte di calcoli matematici
complessi, resi in termini corrispettivi di valutazione in una scala di
valori che parte da “AAA”, “BBB”, “CCC” e si conclude con “DDD”,
l’abitudine delle società di rating a semplificare realtà complesse
rende anche la valutazione del rating “quantitativa” quanto quella
determinata dal denaro. Anche il metodo di valutazione del rating
riporta ad una valutazione non oggettiva della realtà, che può anche
provocare effetti imprevedibili, dovuti invece a modalità
interpretative del tutto umane. Sembra di trovarsi, osservando i
termini di valutazione delle agenzie di rating, ma anche quelli
linguistici utilizzati nel mondo economico, come per esempio:
“Subprime”, “Stock Options”, “ABS”, “Toxic Bond”, “Upgrading”,
“Syntetic CDO”, “Downgrading” e così via, alla neolingua descritta da
George Orwell in “1984”; una lingua costituita da parole brevissime e
composte, ma dal significato univoco, per fare in modo che le
associazioni mentali siano minori di quelle generate se invece le
parole fossero distinte. L’obiettivo del potere immaginato da Orwell è
quello di semplificare le possibilità d’indagine e comprensione che
ogni lingua offre, con il risultato di limitare nell’individuo la
comprensione della realtà, favorendo il potere nella sua volontà di
dominio. Il risultato preconizzato da Orwell è quello della creazione
di un linguaggio che si sarebbe tradotto in un modo di parlare a
scatti, monotono e ben differenziato, producente uno stato di
trance che avrebbe limitato fortemente l’autocoscienza. Per
capire che Orwell aveva previsto il percorso nel quale noi tutti siamo
già inseriti, basti pensare alle immagini delle borse mondiali in
attività, quando gli operatori gesticolano freneticamente pur
utilizzando esclusivamente le dita delle mani. In effetti ho il serio
dubbio che i “titoli”, in quanto “rappresentativi” del valore
dell’azienda ma con la funzione di raccogliere investimenti, alla fine
abbiano prevalso sulla realtà dell’azienda stessa. Il titolo
“rappresenta”, ma non è l’azienda. Forse bisognerebbe cominciare a
pensare alla possibilità di abolire il sistema mondiale delle Borse. Dacrema
afferma che il metodo di valutazione delle società di rating è valido
proprio per la sua caratteristica di semplificare realtà e metodi
complessi agli occhi del grande pubblico; ed è perciò dell’opinione che
sarebbe utile estendere il metodo di valutazione del rating alla
totalità della realtà della vita. Forse non ha compreso che è proprio
il linguaggio economico ad essere irreale. È in questo che il rating si
rivela per quello che è: una finzione utile alla crescente corruzione
generale del sistema. Il suo essere un “semplice” predittore di
possibili insolvenze da parte di aziende, banche o altro, lo pone sullo
stesso piano di un sacerdote cretese di 2300 anni fa, che scrisse su
una tavola di terracotta, a proposito della sua capacità di
interpretare sogni: «[…] È un cretese colui che interpreta queste cose
(i sogni)», pensando o facendo credere che la sola condizione di
sacerdote “cretese”, insieme al fatto che Dio stesso gli aveva dato
l’incarico, gli permettesse di predire il futuro addirittura “con buona
fortuna”. In questo Dacrema ha ragione, quando afferma che la
statistica, al più può essere utilizzata a posteriori come strumento di
analisi di una determinata realtà; cioè, quando i dati sembrano essere
più certi perché definitivi, e non probabilistici come nel caso
delle valutazioni utilizzate fino ad oggi. La statistica non può essere
impiegata per prevedere il futuro di una qualsiasi entità economica
perché il metodo di analisi è troppo semplicistico di fronte alla
complessità e alla imprevedibilità della realtà: soprattutto di fronte
alla complessità della condizione umana, alla quale i fattori economici
sono inevitabilmente soggetti. Tale “interscambiabilità”
congenita, fra l’umano e il “disumano”, è all’origine dell’ambiguità e
del fallimento in partenza dell’attività di rating, che ha messo in
evidenza quello che in effetti tali agenzie non sono (enti super
partes), altresì mostrando la loro vera natura, quella di entità
sacrali di carattere sacerdotale. Tali strutture sacrali sono state
volute e generate non solo dai detentori del potere ma anche dal
“gruppo” stesso, vista la significativa risposta di Standard &
Poor’s alle domande delle Commissioni parlamentari istituite per
indagare sul fallimento del caso Parmalat. Alla domanda specifica su
quale fosse l’effettivo valore aggiunto di un’agenzia di rating, visto
il fallimento delle valutazioni sulla Parmalat, la risposta di Standard
& Poor’s fu che, nonostante le contraddizioni, il rating vive
ancora oggi di una richiesta a operare che nasce da investitori grossi
e piccoli. In ultima analisi, la colpa sarebbe del gruppo in quanto
“investitore”, che vuole credere, ma soprattutto ha bisogno di
affidarsi a qualcuno più sapiente, ossia più “potente” di lui. Qui si
comprende bene in quale forma di sfruttamento i piccoli investitori
siano percepiti dai grandi manipolatori del potere finanziario. Ci
hanno fatto credere che l’economia sia una “scienza”, con tanto di
premi Nobel, e dunque nessuno ritiene di essere competente senza
l’aiuto dell’esperto. Dateci un “aiutino”!
LO STRUMENTO DELLA MONETA
La
funzione delle agenzie di rating, che si sono poste sin dalla loro
nascita come mediatori fra i vari soggetti economici, è stata quella,
attraverso la “potenza” mediatrice della propria parola, di acquisire
progressivamente sempre più potere. Come i sacerdoti di una qualsiasi
religione, gli agenti del rating mediano ancora oggi fra le istituzioni
economiche mondiali più potenti (le banche di emissione del denaro, per
esempio, o le multinazionali, assieme alle agenzie di rating, sono gli
attori principali della globalizzazione) e il gruppo dei
cittadini-investitori (i fedeli). In questo rapporto fra l’Istituzione
economica-Dio e gli investitori-credenti, il denaro-moneta ha la
funzione, (in analogia con lo scambio delle donne fra maschi) di
strumento di comunicazione. Ma il denaro ha tutte le caratteristiche di
una forma primitiva di comunicazione, in quanto forma primaria di
scambio. Esprimendo la moneta un valore, esso è solo quantitativo in
quanto stabilisce implicitamente o la positività o la negatività di ciò
che viene di volta in volta considerato. La moneta si può definire uno
strumento primitivo di comunicazione perché risponde a una forma
cognitiva oppositiva, la più semplice e immediata: giorno-notte,
acqua-fuoco, uomo-donna, bene-male. È questo il motivo per il
quale il denaro non dovrebbe mai essere inteso come forma di
“conoscenza” della realtà. Al contrario, ciò che avviene in ambito
economico è stato esteso anche alla realtà circostante a causa
dell’idea comunista che tutto deve essere riconducibile a una
spiegazione economica. Il denaro invece andrebbe considerato
semplicemente per quello che è: un “limitatore” nella rappresentazione
della realtà. Il denaro non può generare “conoscenza” perché,
azzerandole, non permette di vedere le differenze. Tutti gli oggetti
e strumenti creati dall’uomo sono portatori di
simboli-significati; non sono mai soltanto la concreta materia di
cui sono fatti ma anche la rappresentazione significativa che l’uomo vi
attribuisce. L’economia, esprimendo invece il valore dell’oggetto in
termini puramente quantitativi, ne distrugge tutta la carica di
umanità. Il posizionamento del denaro in cima alla scala dei
valori ha trasformato il denaro nello strumento principale per
conoscere e cambiare la realtà, assumendo così tutte le caratteristiche
della patologia mentale, di una psicosi di gruppo. Il semplice possesso
del denaro (in quanto al suo essere sogno identificativo collettivo…)
non può garantire la sopravvivenza del gruppo, né tanto meno può
salvare il singolo individuo dalla morte. Il delirio è tutto qui,
nell’aver trasformato l’economia, di cui il denaro è il carburante, in
una religione salvatrice. Gli Amministratori Delegati di aziende e
banche, tutti quei manager che non si sono fatti scrupolo di guadagnare
cifre mostruose, che nessuna persona normale sarebbe peraltro neanche
in grado di immaginare, non sono solo etichettabili come individui
avidi ma come soggetti pericolosi per la collettività.
Si pone anche in questa sede, ancora una volta, il grave problema
della fiducia. La verità della “Parola” vacilla come i diagrammi
aziendali. Se, normalmente, nel vissuto quotidiano la fiducia che
concediamo alle persone che amiamo o consideriamo positivamente, indica
un aspetto umano impossibile da quantificare, ciò è dovuto al fatto che
essa si fonda sulla verità della parola. Solo la parola coerente
risponde, sul piano cognitivo e quindi della relazione umana, al
bisogno dell’uomo di linearità nel pensiero, in una stretta
corrispondenza logica ― senza la quale l’uomo stesso non sopravvivrebbe
― fra la realtà e la sua rappresentazione. L’umanità dell’uomo consiste
unicamente in questo, nella sua capacità di ragionare, di usare la
logica. Una volta stabilita la logica come modalità essenziale
nell’uomo per se stesso, ci si rende conto che questo principio di
necessità ha influenzato tutto della sua vita: dalla elaborazione di
fronte ai bisogni primari fino al sentire più profondamente complesso
dell’anima. Anche i sentimenti hanno bisogno per esistere di un
processo logico che sia lineare. In economia invece, a causa della
capacità del denaro di ridurre il tutto dell’esistenza a pura
quantità-oggetto, la parola “fiducia” assume tutt’altro significato.
Un’azienda o una banca sono degne di “fiducia” solo se sono in grado di
garantire un profitto, per il quale, naturalmente, è gioco forza non
preoccuparsi eticamente di come ottenerlo. Anche la “fiducia” viene
ridotta a pura quantità numerica, la stessa che misurano le agenzie di
rating. Solo così possiamo capire i licenziamenti in massa che hanno
caratterizzato l’economia mondiale negli ultimi venti anni, e che sono
stati adottati, non per salvaguardare le aziende dal fallimento, ma per
creare altissimi e immediati profitti attraverso la sopravvalutazione
delle loro azioni. Si delinea qui un altro sintomo patologico del mondo
dell’economia, rilevabile nella figura dell’Amministratore Delegato o
del manager di multinazionali, banche o aziende. Dai primi anni
Novanta, al fine di spingere i manager a realizzare maggiori dividendi
a favore dei proprietari azionisti, si è sovvertita una regola
fondamentale, trasformando il manager in proprietario di quella stessa
azienda nella quale era stato assunto allo scopo di guidarla. Le Stock
Options consistono nella possibilità di acquisire, da parte
dell’Amministratore Delegato, una certa quantità di azioni dell’azienda
che potrà rivendere solo dopo un certo periodo di tempo. Fino a
quel momento, la regola imponeva che i ruoli degli azionisti
proprietari e del gestore dell’azienda, l’Amministratore Delegato,
fossero ben distinti, evitando così qualsiasi possibile conflitto di
interessi. Il meccanismo di uguaglianza-sovrapposizione, come si vede,
è anche in questo caso il medesimo. Con il sistema delle Stock Options,
gli Amministratori Delegati, pur di garantire enormi guadagni ai
proprietari azionisti per garantirli così a se stessi, non si sono
posti nessun problema nel provocare nel tempo il fallimento delle
aziende da cui erano stati assunti. L’assolutezza con la quale questi
uomini hanno “pensato” il denaro, li ha portati a distruggere, senza
neanche rendersene conto, l’intera economia mondiale, mentre l’Economia
diventava di fatto, attraverso il denaro, “misura” di tutte le cose.
L’economia,
dunque, misura il mondo attraverso il valore universale del denaro. Il
“valore” non si esprime per qualità ma per quantità, garantendo
l’uniformità dell’idea di eguaglianza: tanto in democrazia quanto nelle
dittature comuniste, qualità e quantità coincidono. Tutto è misurabile
con il denaro; tutto e tutti, dunque, sono riducibili a un “eguale” (
da aggettivo è diventato sostantivo) totalitario, contribuendo a
invertire il normale rapporto fra Soggetto e Oggetto.
PUBBLICITÀ
«Nessuno è più schiavo di chi si ritiene libero senza esserlo»
GOETHE
In
questo ibridismo di realtà fra loro differenti, la pubblicità è stata
la feroce, compiaciuta ancella della visione economicistica del mondo
imposta a tutti. La complice silenziosa e obbediente dell’odio, la
nemica di tutti noi. A partire dalla fine dell’Ottocento fino ai giorni
nostri, i principi economici, attraverso la pubblicità, si sono
infiltrati in ogni parte della società e hanno contribuito a rendere
l’oggetto-prodotto più importante dell’individuo-soggetto, riducendo
quest’ultimo a semplice “consumatore” e scavalcando qualsiasi regola
etica pur di promuovere la vendita del prodotto. Addirittura negli anni
Ottanta il prodotto è stato trasformato in rappresentazioni
divinizzate, allucinate e allucinanti. Di fronte al prodotto-star (come
lo chiama Jacques Seguela), l’individuo, dopo esser divenuto lui stesso
un oggetto-prodotto, viene ridotto alla condizione di un nulla-star
senza senso, replicato dall’infinito pubblicitario. Molti anni or sono
Guido Ceronetti mise in luce la capacità distruttiva della velocità
tecnologica che, nel riprodurre ossessivamente ciò che viene
rappresentato come “evento” da consumarsi collettivamente, rimuove
qualsiasi ricordo fino alla totale perdita della memoria. La nostra è
una società che non ha più la forza di guardare in profondità la
propria memoria storica, né collettiva né individuale. Ma senza memoria
non ha senso neanche battersi per esistere. Oggi, infatti, non bastando
più nessuna forma di proiezione fantastica nello spazio siderale
(“tutto ha un inizio, tutto ha una fine”), assistiamo a una
volgarizzazione universale: volgarità e violenza sono modelli di
comportamento primari, che tutti quindi possono comprendere. Tutti
“uguali” di fronte alla violenza, tutti uguali di fronte alla minaccia
che si può volgere contro di noi in qualsiasi momento. Tutti uguali
nella dimenticanza e nella paura. Ancora una volta Viviane
Forrester mette giustamente l’accento sul problema del prodotto: se le
multinazionali posseggono tutto, perché dovrebbero preoccuparsi delle
persone, che consumerebbero comunque i loro prodotti? La trasformazione
dell’individuo in prodotto-oggetto è l’avvenimento “sponsale” della
storia dell’umanità; equivale a una trasformazione del gruppo in
“femmina” da possedere, dominare, assoggettare, stuprare; infine
uccidere quando verrà il momento. La propaganda che, in perfetto stile
orwelliano, ha caratterizzato la presentazione-avvento dell’unione
europea con il tripudio, circondato di stelle, del dominio ugualitario
di una “moneta”, è la prova che l’interscambiabilità cela come vero
obiettivo quello di trasformare il maschio-soggetto in femmina-oggetto.
Da una parte si riduce l’individuo a uno stato regressivo infantile
della personalità, affinché, sottomettendosi, accetti il rapporto di
punizione-premio adottato dal potere: paura, insicurezza, immaturità
perenne, passività, inutilità della propria parola, annullamento
dell’io nell’uguaglianza. Dall’altra, il sempre maggiore sincretismo
economico e culturale, segno di un accentramento del potere che occulta
la sua vera meta: il dominio mondiale. Siamo alla conclusione di una
lunga, terribile lotta per il dominio assoluto su tutto e su tutti.
Comprendiamo così il vero senso del misterioso termine
“globalizzazione”: se dicessimo “mondializzazione” sarebbe più chiaro,
ma è la stessa cosa. Alla vigilia delle elezioni europee, per esempio,
nulla è stato finora detto dai politici di quello che l’unione europea
è veramente, né dei problemi che si pongono per la sua governabilità.
L’11 maggio del 2009, in vista della ratifica del trattato di Lisbona
anche da parte dei Paesi più riottosi, come la Cecoslovacchia o
l’Islanda, Trichet, il governatore della BCE, ha affermato, con la
solita ottusa sicumera, che si è quasi a una svolta rispetto
all’attuale crisi economica. Illusi: come se l’unione politica forzata
e definitiva degli Stati europei, possa essere corroborante al
punto da rafforzare l’economia europea e mondiale in un colpo solo. La
verità invece è che fingendo che Nazioni, culture, economie, valori,
siano tutti uguali, si stanno ponendo le basi di una caduta rovinosa di
tutto e di tutti; una caduta che verrà innescata chissà da quale
insignificante episodio, “il battito delle ali di una farfalla”, ma dal
devastante effetto domino. Dopo le elezioni europee del 6 e 7
giugno sarà impossibile qualsiasi marcia indietro. La “ velocità” di
quelle stesse macchine che i potenti hanno considerato solo in funzione
del raggiungimento del potere assoluto, farà il resto, rendendo
improbabile qualsiasi tentativo di salvataggio del mondo così come oggi
lo conosciamo.
Bibliografia:
Bonazza Patrick: I Banchieri non pagano mai il conto Sperling & Kupfer Milano 2008 Dacrema Pierangelo: La cri$i della fiducia – Le colpe del rating nel crollo della finanza globale Etas, Milano 2008
Forrester Viviane: Una strana dittatura- Come resistere all’orrore economico Ponte alle Grazie, Milano 2000
Sapelli Giulio: La crisi economica mondiale Bollati Boringhieri, Torino 2008
Toaff Ariel: Ebraismo virtuale Rizzoli, Milano 2008
Carl Schmitt: la tirannia dei valori Adelphi Editore, Milano 2008
George Orwell: 1984 Oscar Mondadori, Milano 2008
Elio Lannutti: La Repubblica delle banche Arianna Editrice, Bologna 2008
Paolo Landi: Volevo dirti che è lei che guarda te Bompiani, Milano 2006
Elias Canetti: Potere e sopravvivenza Adelphi, Milano 2004
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