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Quei dubbi sulla morte censurati da 40 anni
di Stefano Lorenzetto il Giornale | 4 Settembre 2008 È
giusto dichiarare una persona morta in base a una legge che ha lo scopo
di favorire i trapianti? Un quesito spesso ignorato dalla stampa. A me pare che il vero scandalo sia questo: c’è voluto un quotidiano straniero (L’Osservatore Romano),
diretto da un docente universitario di filologia patristica prestato al
giornalismo (Giovanni Maria Vian), per porre con forza l’interrogativo
che da 40 anni viene censurato dagli organi d’informazione italiani: è
giusto dichiarare morta una persona in base a una convenzione di legge
che ha il solo scopo di favorire i trapianti d’organo? Perciò dobbiamo
essere grati a Lucetta Scaraffia, componente del Comitato nazionale di
bioetica, che s’è assunta questa scomoda incombenza sulla prima pagina
del foglio vaticano e ora deve sopportare il peso delle critiche e
degli insulti.
Avrebbe potuto esprimere la sua posizione impopolare dalle pagine del Corriere della Sera,
al quale pure collabora insieme col marito Ernesto Galli della Loggia.
Non è un caso se ha deciso invece di affidarla al giornale del Papa.
Questo Papa. Perché, come ha ricordato lei stessa nell’articolo, fu
proprio l’allora cardinale Joseph Ratzinger, in una relazione sulle
minacce alla vita umana tenuta durante il concistoro straordinario del
1991, a dire: «Più tardi, quelli che la malattia o un incidente faranno
cadere in un coma “irreversibile”, saranno spesso messi a morte per
rispondere alle domande di trapianti d’organo o serviranno, anch’essi,
alla sperimentazione medica». Il futuro pontefice li chiamò, in
quell’occasione, «cadaveri caldi».
Temo d’essere stato
l’involontario catalizzatore dell’articolo sul giornale della Santa
Sede. Giusto una settimana fa ho partecipato con l’autrice e con il
professor Edoardo Boncinelli a un dibattito di Cortina Incontra che
verteva proprio su questo tema, Tra la vita e la morte.
La professoressa Scaraffia ha parlato soprattutto dell’aborto. Io mi
sono permesso di scandalizzare l’attento uditorio ampezzano con alcune
provocazioni sulla morte cerebrale. La consonanza d’opinioni, fra lei e
me, alla fine m’è sembrata totale. Il padre di mio padre fu dichiarato
morto quando il suo cuore si fermò, l’alito non appannò più uno
specchio, il corpo cominciò a perdere tepore e a irrigidirsi. Ma nel
1968 la Harvard medical school concepì un nuovo criterio: si è morti
quando muore il cervello. Del resto bisognava pur dare copertura
giuridica a un chirurgo sudafricano, Christian Barnard, che qualche
mese prima aveva eseguito il primo trapianto di cuore.
Purtroppo
tutti gli organi, a eccezione delle cornee, hanno questo di brutto: per
poter essere trapiantati vanno tolti dal corpo del «donatore» mentre il
cuore di questi batte, il sangue circola, la pelle è rosea e calda, i
reni secernono urina, un’eventuale gravidanza prosegue, tanto da
rendere necessaria la somministrazione di farmaci curarizzanti per
impedire spiacevoli reazioni quando il chirurgo affonda il bisturi. Vi
paiono cadaveri, questi? Sì, assicurano i trapiantisti. No, stabilisce
una legge dello Stato: infatti «per cadavere si intende: “Il corpo
umano rimasto privo delle funzioni cardiorespiratoria e cerebrale”»
(circolare del ministero della Sanità 24 giugno 1993, n. 24).
Prima
contraddizione. Chiesi al professor Vittorio Staudacher, pioniere della
chirurgia, come mai ai parenti delle vittime venisse taciuto che il
«cadavere» del loro caro tale non era, visto che la funzione
cardiorespiratoria è conservata. Mi rispose (aveva ormai 90 anni e non
operava più): «Perché è terribile. Per non impressionare la gente.
Sembrerebbe il saccheggio di un vivente». Collimava con quanto
dichiarato sette anni prima dall’allora presidente dell’Associazione
internazionale di bioetica, Peter Singer, assertore del principio per
cui è da considerarsi persona solo chi è cosciente: «La gente ha
abbastanza buon senso da capire che i “morti cerebrali” non sono
veramente morti. La morte cerebrale non è altro che una comoda
finzione. Fu proposta e accettata perché rendeva possibile il
procacciamento di organi». Molteplici studi convergono sul fatto che
solo il 10 per cento delle funzioni encefaliche è stato sinora
esplorato. Più ottimista, il professor Enzo Soresi, autore de Il
cervello anarchico (Utet), di recente mi ha detto: «Sul piano anatomico
e biologico sappiamo intorno al 70 per cento. Ma sulla coscienza? Qui
si apre il mondo».
Allora come fa la scienza a dichiarare morto,
cessato, finito un mondo di cui per sua stessa ammissione conosce poco
per non dire nulla? Seconda contraddizione. Vogliamo parlare delle
modalità di accertamento della morte cerebrale? Nel 1975 la legge
fissava in 12 ore il periodo d’osservazione obbligatorio prima che il
collegio medico potesse autorizzare l’espianto degli organi. Nel 1993
il presidente Oscar Luigi Scalfaro dimezzò i tempi: 6 ore. Dopodiché,
se l’elettroencefalogramma risulta «piatto», si procede all’espianto.
Un decreto del ministero della Sanità autorizza persino il personale
tecnico a eseguire questo esame decisivo. Perché tanta fretta che mal
si concilia con la tutela dell’individuo e dei suoi familiari? Terza
contraddizione.
Il 1° aprile 1999 è entrata in vigore la legge
n. 91 che impone al cittadino di «dichiarare la propria libera volontà
in ordine alla donazione di organi». La mancata dichiarazione «è
considerata quale assenso alla donazione». È passato cioè il principio
del silenzio-assenso che fa di ciascun (ignaro) cittadino un donatore,
salvo esplicita opposizione. Ma in che modo va espressa tale
contrarietà? Il ministro della Salute era tenuto a emanare, entro 90
giorni dall’entrata in vigore della legge, un decreto che lo
determinasse. Sono passati quasi 10 anni, si sono succeduti sei
ministri, ma quel decreto non s’è mai visto. In compenso si sono visti
un illegale tesserino blu inventato da Rosy Bindi; moduli prestampati
con i quali Asl e ospedali inducono i cittadini a barrare il «sì» o il
«no»; tessere sanitarie regionali che comprendono una sezione per la
manifestazione di volontà all’espianto-trapianto; persino tessere
comunali di donazione diffuse con la carta d’identità.
Insomma,
il Far West. A chi giova questa zona d’ombra se tutto deve avvenire
alla luce del sole? Quarta contraddizione. Alessandro Nanni Costa,
direttore del Centro nazionale trapianti, sostiene che in 40 anni i
criteri di accertamento della morte cerebrale «non sono mai stati messi
in discussione dalla comunità scientifica e vengono applicati in tutti
i Paesi scientificamente avanzati». Ma non in Giappone. È da
considerarsi un Paese scientificamente arretrato, il Giappone?
Quinta
contraddizione. «I dubbi ci sono sempre stati», concede, bontà sua,
Nanni Costa, «ma solo da parte di frange minoritarie, che fanno
critiche di carattere non scientifico». Cito un nome fra i tanti: il
professor Nicola Dioguardi, emerito di medicina interna dell’Università
di Milano, ha pubblicamente condannato il concetto di morte cerebrale.
È da considerarsi un critico ascientifico, l’illustre professor
Dioguardi? Sesta contraddizione. La verità è che una potentissima lobby
da 40 anni ha tolto a queste frange minoritarie persino il diritto di
parola. La professoressa Lucetta Scaraffia gliel’ha restituito sul
giornale del Papa. Un pulpito qualificato, direi, per una predica sulla
vita e sulla morte. Basta volerla ascoltare senza pregiudizi.
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it link originale: http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=288083 © SOCIETÀ EUROPEA DI EDIZIONI SPA - Via G. Negri 4 - 20123 Milano |
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