editoriale
Noi, fragili, contro la marea musulmana
di Ida Magli IlGiornale | 12/01/2009
L’immagine di piazza Duomo riempita di musulmani in preghiera, pubblicata da Il Giornale,
ha finalmente provocato, non soltanto nei milanesi ma in tutti gli
italiani, quel sentimento di angosciosa sorpresa che fino a oggi nulla
era riuscito a provocare. Eppure sono molti anni ormai che si
susseguono le notizie sugli sbarchi a Lampedusa, sulle scuole che
rinunciano a festeggiare il Natale per non offendere i bambini
islamici, dei crocifissi sempre sul punto di essere sloggiati da
qualche aula; per non parlare delle prediche inutili di quei pochi che
hanno tentato di mettere in guardia sia i politici sia le gerarchie
ecclesiastiche sui pericoli che la presenza di credenti musulmani
avrebbe inevitabilmente comportato per una civiltà fragile come la
nostra. Che la nostra civiltà sia fragile tutti lo sanno bene; ma è
necessario mettere l’accento sul fatto che è fragile soprattutto a
causa dei suoi stessi valori principali: il cristianesimo, la libertà,
la indulgente benevolenza tipica del carattere degli italiani. Sia
il benvenuto quindi questo sussulto perché, se ci muoviamo subito,
forse siamo ancora in tempo a salvarci. Prima di tutto cerchiamo di
guardare la realtà in faccia senza gli accomodamenti di maniera. I
musulmani che si riuniscono nelle piazze per pregare e per manifestare
i loro sentimenti ci turbano perché sono tanti, visibilmente troppi
perché noi si possa tenerli a bada. Questo è il dato fondamentale: sono
troppi. Nel loro essere troppi è inclusa, poi, anche la visione del
loro immediato moltiplicarsi con i numerosissimi figli e parenti. Che
faremo? La questione della Palestina è grave e sicuramente non troverà
soluzione in pochi giorni. È proibito dare fuoco alle bandiere? Certo,
lo sappiamo, ma dirlo non è sufficiente. Comunque è soltanto la
motivazione di oggi. Domani ce ne sarà un’altra, dopodomani un’altra
ancora... Quello che ha turbato di più, però, è l’associazione
«Duomo-musulmani». Il grande spazio vuoto davanti a una cattedrale o
alla chiesa principale di un paese segnala la sua sacralità, il
«limite» oltre il quale si addensa la presenza divina che risiede nel
tempio con l’eucarestia. In termini etnologici, diciamo che la piazza
davanti al Duomo non è stata creata come luogo di riunione ma per porre
una distanza «di rispetto» fra il profano e il sacro. Per i cristiani,
ma soprattutto per i cattolici, una chiesa inoltre è un luogo dove si
celebra il rito per eccellenza, il sacrificio della Messa, con la
trasformazione reale del pane e del vino nel corpo di Cristo. La
lampada sempre accesa davanti all’altare dove è custodita l’eucarestia
testimonia che Gesù ha mantenuto la promessa: «Io sarò sempre con voi».
Naturalmente tutto questo non ha alcun senso per i musulmani ai
quali è sufficiente un tappetino e volgersi in direzione della Mecca
per pregare. Si riuniscono in piazza Duomo perché è al centro della
città, è un luogo molto grande e perché comunque percepiscono, sia pure
inconsapevolmente, la positività della risonanza culturale, storica,
sacrale di cui i luoghi si impregnano attraverso il vissuto degli
uomini. Prendiamocela dunque con noi stessi, con i nostri politici, con
le nostre gerarchie religiose se oggi ci troviamo di fronte a una così
drammatica situazione, non con loro. Né si dica (cosa che spesso si
sente dire) che gli immigrati debbono imparare a rispettare le nostre
leggi, le nostre consuetudini, i nostri valori: le culture sono una
diversa dall’altra proprio in questi aspetti, non in altri. Possono
imparare ad andare in orario al posto di lavoro anche se la percezione
del tempo è diversa da cultura a cultura; possono imparare, sia pure
con molta fatica, a parlare la nostra lingua, a mangiare qualcuno dei
nostri cibi, a vestirsi come noi, ma i tratti che fondano una cultura
non si possono cambiare. E non esiste cultura senza religione, o
meglio: sono le religioni che fondano le culture. Questo significa
che siamo noi a dover agire. Prima di tutto prendendo coscienza che,
per quanto laica sia la nostra società, si fonda su valori che, già
presenti nella romanità, sono stati forgiati dal cristianesimo e
rimangono a fondamento della nostra convivenza civile anche quando non
ci accorgiamo più della loro origine cristiana. Credenti oppure no,
dunque, non possiamo lasciar prevalere l’islamismo senza perire. Anche
se accettassimo di diventare musulmani, o vi fossimo costretti, questo
significherebbe ugualmente la fine della nostra civiltà. Nessuno
si faccia illusioni in proposito. L’islamismo è una religione forte,
vitale e inflessibile (non ha la Grecia, Roma e Gesù di Nazaret dietro
di sé). Né si guardi agli Stati Uniti d’America come esempio di luogo
dove convivono razze, popoli e religioni diverse. L’America possiede un
territorio immenso, cosa che già di per sé permette di non sentire
l’acqua alla gola davanti alle diversità, come succede invece a noi con
il nostro spazio ristrettissimo. Poi, essendo tutti in origine degli
immigrati, gli americani non si trovano nella condizione di invasi e
sopraffatti nella propria terra, nel proprio Paese, nella propria casa.
Infine, tanto per dire la verità fino in fondo, bisogna togliersi dalla
testa che l’America sia il paradiso delle etnie: la conflittualità
negli Stati Uniti è fortissima, e lo è proprio per tutti quei motivi di
cui da noi non si vuol sentir parlare come la razza, la cultura, il
Paese di provenienza, la religione, la classe sociale, la ricchezza e
così via. Dunque, non abbiamo più un minuto da perdere. Prima di tutto
è indispensabile fare, da laici, quello che già molte volte i laici
hanno fatto lungo la storia della Chiesa: scendiamo nelle piazze a
predicare la nostra verità, creiamo dei movimenti nuovi nell’ambito del
cristianesimo, dei movimenti che non si occupino di fare la carità o di
rinnovare la teologia, ma che parlino di Gesù; che gridino anche alle
istituzioni ecclesiastiche il Suo: «Non ripetete parole!». Sì, sono
troppo logore le parole rituali, e la fame della nostra società è la
fame dell’anima. Non lo vedete, dunque, che siamo tutti, anche voi, con
i vostri conventi vuoti, i vostri seminari deserti, le vostre
parrocchie abbandonate, come pecore senza pastore? I francescani sono
nati così: andando per le strade, senza né libri né sacerdozio,
soltanto con il Vangelo. Gridiamolo anche ai nostri politici: «Non
ripetete parole!» perché noi delle parole non ne possiamo più. Non
avete il diritto, parlando sempre di come diventeremo ricchi, di
ucciderci nell’anima, di strapparci la nostra terra, la nostra cultura,
la nostra religione. Avete giurato di essere fedeli all’Italia, non al
mondo intero. Cominciate oggi. Neanche un immigrato in più, niente
permessi di soggiorno, niente rifugiati, nulla. In Italia non c’è più
posto per nessuno. Non aiuteremo il mondo lasciando morire la nostra
civiltà, la bellezza della nostra musica, della nostra arte, della
nostra poesia, al contrario. Il mondo sarà infinitamente povero senza
l’Italia. La Chiesa sarà infinitamente povera senza l’Italia.
Ida Magli
Roma, 12 Gennaio 2009
© SOCIETÀ EUROPEA DI EDIZIONI SPA - Via G. Negri 4 - 20123 Milano |
|
|
|