I
popoli non corrono, camminano. E quando si vuole metterli al passo di
corsa inevitabilmente cadono o rovesciano chi li ha costretti a
quell'andamento innaturale. È accaduto con i grandi dittatori, sta
accadendo lo stesso con l'Unione Europea. Non a caso l'Ue è stata
gradita (o non sgradita) a tutti finché ha proceduto a piccoli, lenti
passi. Dopo l'introduzione dell'euro - che già di per sé era un passo
gigantesco, lungo e faticoso da assorbire - i Signori di Bruxelles e di
Strasburgo hanno iniziato un'accelerazione paurosa e improvvisa:
l'allargamento smisurato a Paesi non ancora pronti a entrare, e che gli
altri europei non erano ancora pronti a ricevere; poi la presunta
Costituzione, bocciata da francesi e olandesi; infine il trattato,
bocciato dagli irlandesi. Un giorno, un importante diplomatico
italiano mi disse: «Bisogna fare l'Europa, anche contro la miopia dei
popoli». A parte la strana concezione della democrazia, che va bene
finché i popoli ubbidiscono e va forzata quando i popoli sono "miopi",
si tratta davvero di miopia o di qualcosa percepito come profondamente
innaturale? Non si capisce davvero quanto è accaduto in Francia, in
Olanda, in Irlanda, e domani altrove, se non si guarda con attenzione a
cosa sta accadendo in questi giorni in Svizzera e in Austria. I popoli
del continente seguono con passione gli europei di calcio, e la
passione sta soprattutto nel sostegno della propria nazionale contro le
altre. Non è una banale questione di tifo, bensì una fondamentale
questione di appartenenza, di cui il calcio è la più evidente cartina
di tornasole: ogni popolo si sente italiano, tedesco, polacco, croato,
greco prima che europeo, anche fuori dagli stadi. La fusione a freddo
europea, invece, pretende che ci si senta anzitutto europei, poi
inglesi, portoghesi, belgi. Niente di più innaturale e sbagliato,
perché i popoli sono il frutto di una sedimentazione storica secolare,
a volte millenaria, fatta di storia, lingua, religione: elementi che
non si possono amalgamare di colpo e a colpi di leggi, come si fa per
le mozzarelle e i pomodori. Anche perché l'esempio ortocaseario è già
di per sé fallimentare: si vogliono tutti i pomodori uguali? Ci ha
rimesso chi faceva i pomodori migliori, naturalmente; si vogliono le
mozzarelle tutte uguali? Ci ha rimesso chi faceva le mozzarelle più
buone. Ogni popolo si sente, spesso a torto, migliore degli altri, ma
di certo ognuno ha diritto a sentirsi unico e non amalgamabile con la
forza. Perché di uso della forza, si tratta. Un numero sempre
maggiore di europei sta scoprendo, giorno dopo giorno, che l'Ue
rappresenta sempre più un raddoppio dei poteri sulla propria testa,
senza che aumentino i diritti, anzi. Al Parlamento nazionale si assomma
quello comunitario, al governo nazionale la commissione europea, alle
proprie leggi si aggiungono quelle decise da politici di altri Paesi,
ancora più misteriosi e irraggiungibili di quelli nostrani. Non c'è
dunque da stupirsi se gli irlandesi, che hanno sempre dovuto difendere
con il sangue la propria autonomia, non vogliano un capo del governo
europeo né un ministro degli Esteri europeo, nonostante tutti i
vantaggi economici che hanno ricevuto dall'Unione. E così avverrà
sempre più spesso, ogni volta che i trattati - con i quali si rinuncia
a parte della propria autonomia e identità nazionali - verranno
sottoposti a referendum. Sbaglia, clamorosamente e colpevolmente, chi
come Napolitano, come Barroso, dice che bisogna andare avanti lo
stesso, a ogni costo, contro la volontà dei cittadini. In proposito mi
viene in mente questa frase: «L'Europa deve essere fatta nel comune
interesse di tutti e senza considerazione alcuna per gli individui»,
che non è di Napolitano né di Barroso, ma di Adolf Hitler, nel suo
testamento. Oppure, per ricorrere a citazioni meno drammatiche, basterà
questa di Franz-Joseph Strauss, uno dei padri fondatori dell'Unione,
che con un paragone dolciario mette in risalto tutta l'amarezza per il
cancro burocratico che divora l'Europa: «I Dieci Comandamenti
contengono 279 parole, la Dichiarazione americana d'Indipendenza 300 e
le disposizioni della Comunità Europea sull'importazione di caramelle
esattamente 25.911». Dieci anni fa mi affiancai a Ida Magli e ad
altri tre (dico 3) amici per fondare Italiani Liberi
(www.italianiliberi.it), l'unica associazione che esistesse allora in
Italia, e ancora oggi, per opporsi alla fagocitazione europea. Fummo
scambiati, nel caso migliore, per ipernazionalisti all'antica, nel caso
peggiore per retrogradi; per matti, sempre e comunque. Oggi ci possiamo
considerare i precursori di un vasto movimento che attende soltanto la
possibilità di contarsi. Gli italiani, oppressi dai sensi di colpa per
il fascismo e allettati dalle ricche casse dell'Unione, sembravano gli
europeisti più convinti e incondizionati, ma ormai non è più così. Non
ci possiamo contare soltanto perché non abbiamo mai potuto votare
liberamente con un sì o un no all'Ue, ai suoi trattati di vertice, alle
sue Costituzioni fasulle. Si dice che non è possibile fare un
referendum simile, da noi, perché la nostra Costituzione vieta i
referendum sui temi di politica estera. Ma non è politica estera quella
che ogni giorno decide della nostra vita quotidiana, che ci fruga nelle
tasche, che stabilisce quali siano le molestie sessuali, pretendendo
che siano identiche a Stoccolma come a Trapani. Gli italiani si sono
liberati, da pochissimo e fra gli ultimi, dei residuati dei partiti
comunisti. Ormai siamo pronti a capire che l'Unione europea si basa -
mutatis mutandis - su principi comunisti, più che comunitari:
l'economia che prevale su tutto (sentimenti, spirito di appartenenza,
individualità) e uguaglianza a tutti i costi, anche con la forza, non
più fra gli individui ma addirittura fra i popoli. È soltanto salutare
che il moloch europeo venga frenato. Se l'Europa si farà, non può e non
deve essere la nostra generazione a farla, mentre ci rimbombano ancora
nelle orecchie i ricordi della Seconda guerra mondiale di padri e
nonni. Forse non sarà neppure la prossima generazione, né nessun'altra,
finché non ci sarà almeno una lingua - e soprattutto un sentire -
comune. Pensare di arrivarci con dei trattati internazionali è degno di
Caligola.
Giordano Bruno Guerri www.giordanobrunoguerri.tribunalibera.com
© SOCIETÀ EUROPEA DI EDIZIONI SPA - Via G. Negri 4 - 20123 Milano
|