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Vi spiego quant'è inutile essere deputato
di Paolo Guzzanti il Giornale | 2 Dicembre 2008
Io
sono un parlamentarista fanatico e controcorrente. Sono cresciuto nel
culto del Parlamento inglese, quello sulla cui porta la regina deve
bussare tre volte prima di essere ammessa. E sono depresso e arrabbiato
per lo sfacelo dell’immagine del Parlamento italiano. La verità? Oggi
questa istituzione non serve quasi a niente. Gli italiani si
concentrano sul preteso scandalo dei pianisti e allora confesso: quando
vado al bagno a fare pipì dopo quattro ore inchiodato sulla panca, il
mio vicino se occorre vota per me e io per lui quando gli rendo la
cortesia. Suonano il piano quelli della maggioranza e quelli
dell’opposizione. Io credo che sia una sorta di ultima trincea mentale
di difesa. Io vorrei che il Parlamento riacquistasse la sua dignità
perduta, la sua funzione smarrita (non da oggi: da quando frequento le
camere è sempre la stessa solfa) e la sua dignità. Quando scrivevo
su questo Giornale che avrei voluto una carica dei carabinieri a
cavallo contro i girotondini che osavano circondare le Camere e
dileggiare i parlamentari, dicevo quel che anche oggi penso. Ma poi?
Guardiamo la nostra giornata. In che consiste? Discussioni verbose,
dialettali, prefabbricate, scontate, inutili. Nessuno ascolta, in
genere, chi parla; e chi parla non merita altro che disattenzione e
sbuffi. La mia felicità è arrivata il giorno in cui alla Camera oltre
che al Senato hanno messo le prese elettriche sicché uno si può portare
il computer e lavorare mentre voci da caporali, da una parte e
dall’altra urlano «verde» o «rosso». Se non si deve votare, e se
non si è comandati di parlare, è inutile andarci. Ma in genere ci si
va, perché prima o poi si vota. Ma si arriva a votare in modo ozioso,
frenato dalle continue richieste di «richiamo al regolamento» o di
intervento «sull’ordine dei lavori». Se il Presidente di turno ti vuole
bene e tu gridi «Ordine dei Lavori», quello ti accende il microfono e
tu se credi puoi anche parlare di tua zia Carolina, tanto non gliene
frega niente a nessuno. Pochi sanno di che cosa si sta discutendo
perché in genere si discutono emendamenti su emendamenti alle leggi.
Gli emendamenti vengono illustrati e discussi in modo stentoreo,
avvocatesco, ora meridionale e ora settentrionale, raramente in lingua
italiana, la quale però è molto rispettata dai deputati delle minoranze
etniche ma con accento tedesco. Due legislature fa sentivo la senatrice
Tana De Zulueta usare un italiano perfetto, raffinato e sofisticato,
colto ed evoluto, ma con l’accento di Stanlio e Ollio. Il Parlamento
della Repubblica oggi non serve quasi a niente, parola di un
rappresentante del popolo. I deputati guadagnano troppo? Dipende dai
punti di vista. Dal punto di vista del deputato o del senatore se la
tortura dell’inutilità, della vacuità, della dispersione delle energie
potesse essere compensata con del denaro, direi che guadagniamo
soltanto una piccola parte di quel che una buona assicurazione sulla
dignità ci dovrebbe assicurare. Dal punto di vista poi del
prodotto, chiamiamolo così, i nostri stipendi sono soldi buttati. Altro
che prendersela con gli assistenti parlamentari, le autostrade gratis e
i biglietti aerei nazionali: l’intera baracca è un peso per le casse
dello Stato, il che è una tragedia perché quella baracca nobile che è
il Parlamento dovrebbe essere il baluardo, l’agorà, il presidio della
democrazia. In quel fortilizio ciascuno di noi dovrebbe sentirsi, come
ordina la Costituzione, rappresentante dell’intero popolo italiano e
dovrebbe esercitare il proprio dovere senza vincolo di mandato, guidato
soltanto dalla propria coscienza. In realtà maggioranza e
minoranza, veltroniani e dipietristi, berlusconiani e leghisti, siamo
tutti dei nominati dai nostri partiti e stiamo lì a recitare delle
piccole modeste parti già scritte il cui momento più esaltante, più
spirituale, più divino, è quando infili le dita nella buchetta che sta
sul tavolo e palpeggi quei tre tastini, bianco rosso e verde come la
bandiera e, a comando e secondo i comandi, spingi il tasto giusto:
perché se spingi il tasto sbagliato, allora sul cartellone della
tombola elettronica alto sul muro si vede la tua pallina solitaria
rossa in mezzo ai verdi o viceversa e fai una figura barbina. Se poi
sei un dissenziente, tutti ti guardano, incerti se seguitare a
frequentarti o lavarsi le mani dopo averti toccato. Se guardiamo
alle Camere come una azienda che produce buone leggi per il Paese, la
produzione è zero. E non perché le leggi non escano fuori, altroché se
escono, ma non hanno quasi nulla a che fare con il lavoro del
Parlamento, salvo quel poco che si fa nelle Commissioni, dove comunque
i numeri comandano. Non vorrei essere frainteso: ciò accadeva col
governo Prodi e accade oggi col governo Berlusconi e non dipende da
altro che dalla evoluzione di un sistema che di fatto ha riscritto la
Costituzione materiale senza aver toccato quella formale. Quanto a
me, siedo fedelmente e continuamente alla Camera (credo di essere uno
di quelli col record delle presenze) e mentre siedo lavoro: mi porto da
lavorare, seguo quel che succede, voto, ma per lo più vengo preso da
crampi. Crampi al cervello. I discorsi sono quasi tutti fatui,
retorici, prevedibili, vanitosi, con sprazzi ora di tedio e ora di
odio, secondo le circostanze. Non voglio offendere nessuno perché il
problema non è poi tanto personale: ma se al posto di tutti quelli che
ci sono – fra cui io che scrivo queste note - ci fossero altrettanti e
diversi cittadini della Repubblica, penso che sarebbe la stessa cosa.
Il Parlamento langue perché non serve, questa è la verità. E languendo
perde identità. Perde funzionalità, perde dignità. I deputati di prima
nomina a quest’ora hanno capito l’andazzo e si sono depressi. Noi
veterani ci sentiamo come i vecchi galeotti che sanno come ottenere un
po’ più di sbobba e marcare visita. Sto per caso scrivendo un pezzo
di colore? Dio me ne scampi. Queste sono note di dolore e di
frustrazione, che sono profondamente tristi per chi come me si sente un
patriota della democrazia parlamentare, un fanatico del Parlamento. E
allora? Quel che vedo io oggi è straordinario? Diverso? Folle?
Esagerato? Non credo. E allora, che cosa sta accadendo? Provo a
spiegarlo. Durante i decenni della prima Repubblica, democristiana e
cattocomunista, di centrosinistra o di altra formulazione fantasiosa,
il Parlamento era fortissimo, erculeo, e i governi erano fragili e
malaticci, moribondi. I capibastone dei partiti e delle correnti
facevano e disfacevano governicchi pallidi rachitici che duravano meno
d’un anno: era il regno della correntocrazia, della partitocrazia,
della democristianeria e la politica si svolgeva tutta fra i sussurri e
i fruscii nel Transatlantico di Montecitorio, giustamente definito il
salone dei passi perduti. E oggi? Oggi i giornalisti – milioni di
giornalisti accreditati perché siti internet, tv regionali, locali,
satellitari, urbane, suburbane acquatiche terrestre lacustri sono tutte
accreditate con le loro radio – non hanno interlocutori e si affollano
come sciami di api quando vedono un leader riconosciuto. E non gli
pongono domande: allungano un microfono come un imbuto e sperano che
dentro ci finisca qualcosa. I giornalisti ormai non fanno domande.
Pronunciano delle parole introduttive e porgono l’imbuto. Se vedono un
capogruppo, un leader, si affollano stancamente. Oggi l’esecutivo
è fortissimo, fa e disfa il Parlamento. Ieri il Parlamento faceva a
pezzi i governi. Oggi le parti si sono invertite. Di conseguenza il
Parlamento è diventato un salotto, non corrono grandi odi, non si
vedono lampeggiare le lame. Le folle esterne reclamano la gogna per i
pianisti, e il Presidente della Camera gli promette le impronte
digitali. Io ho detto che mi rifiuterò – per il decoro del
Parlamento, non del mio – e ho controproposto la macchina della verità,
così, per divertirsi un po’: cominciamo dalle domande semplici tipo
come si chiama suo padre. Poi si vede se il sismografo registra la
bugia alla domanda se hai votato per qualcun altro. La politica, per
quel che vedo, non abita più qui da tempo. Di fatto viviamo in una
democrazia presidenziale – che sarebbe stata presidenziale anche se
avesse vinto Veltroni – ma senza i contrappesi di una democrazia
presidenziale. Il Parlamento di fatto e non soltanto da questa
legislatura è diventato lo studio di un notaio di decisioni già prese,
di votazioni già stabilite. In aula qualcuno urla, ma prevale la noia e il senso dell’inutilità, quasi della beffa.
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