editoriale
La sacralità del corpo
di Ida Magli
il Giornale | 20 Agosto 2008 Per
cercare di capire le motivazioni profonde della decisione presa dalle
autorità egiziane di non permettere le donazioni di organi fra persone
di religione copta e quelle di religione musulmana, è indispensabile
partire da molto lontano. E lontano soprattutto dalla mentalità
occidentale che ha in pratica quasi del tutto annullato il confine fra
percezione “sacra” della vita, degli uomini, del mondo, di Dio, e
percezione laica, ossia immediata, concreta, razionale, utile. Sono
le religioni, ogni religione, ad aver dato un significato “vivo” alla
morte, considerandola come un momento di passaggio ad una vita più
vera, quella del dopo la morte, dell’al di là divino, della conoscenza
e dell’amore con Dio, dell’amore perfetto con gli altri uomini. Nel
cristianesimo, poi, più che in tutte le altre religioni, questa vita
d’amore nell’al di là è diventata la speranza e la consolazione più
forte per tutta la solitudine, i dolori, le sofferenze, le angosce, che
accompagnano ogni individuo sulla terra in quanto è fondata sulla fede
nella resurrezione del corpo e nel ritrovamento nell’al di là di tutti
coloro che ci sono stati cari. Nessuna religione è “vicina” ai bisogni
più profondi dell’uomo quanto il cristianesimo proprio perché ha
assunto il corpo insieme allo spirito; e ha reso possibile così a chi
crede, la “santificazione” del corpo già durante la vita come hanno
sempre affermato gli asceti, i mistici, gli innamorati di Gesù, i primi
martiri, quei martiri che in carcere appoggiavano l’eucarestia sul
corpo di uno dei prigionieri considerandolo un altare. E cosa dire del
culto delle reliquie? Le reliquie non sono forse parti del corpo di un
Santo? Ma nel cristianesimo tutti i morti nella fede sono santi. Dunque
per capire la questione posta in Egitto dal divieto delle donazioni di
organi fra uomini di diversa religione, bisogna per prima cosa
riflettere sulla importanza e la sacralità del corpo di un credente.
L’idea della totale uguaglianza diffusa oggi in Occidente costringe a
superare qualsiasi confine fra gli uomini e senza dubbio questo appare
come un ideale, un valore bellissimo, ma si tratta di un ideale, di un
valore “meta-fisico” che bisogna stare attenti a non forzare sul piano
del concreto proprio per non porre un abisso fra la sensibilità laica e
quella religiosa. E’ tipico delle religioni stabilire “differenze” in
quanto soltanto con la percezione di una differenza, di uno stacco, di
un confine si riesce, con i sensi limitati di cui sono dotati gli
uomini, a intuire il “sacro”, a credere nel “sacro”, a temerlo, a
rispettarlo. Tutti i tabù che si ritrovano fra le popolazioni del mondo
nascono come isolamento dal sacro e al tempo stesso come difesa e come
rispetto del sacro. Il divieto di mangiare determinati cibi o bevande è
già frutto del timore di contaminazione, così come il divieto di
toccare la donna mestruata e in generale tutto quello che ha a che fare
con il sangue. Se da noi è permesso ai musulmani e agli ebrei di
macellare gli animali in modo che le carni siano del tutto prive di
sangue, se è permesso che i defunti vengano seppelliti in terreni
separati, non dovrebbe stupirci neanche il bisogno di separatezza di
ciò che l’individuo possiede di più proprio: il suo corpo. Forse
questa occasione può essere utile per riflettere, senza reazioni
immediate di rifiuto, su ciò che sta accadendo in Occidente, al fine di
capovolgere la prospettiva con la quale siamo abituati a guardare agli
avvenimenti che ogni giorno mettono a dura prova la nostra coesistenza
con tanti stranieri. Percepire le differenze è strumento essenziale del
pensiero: sarebbe sciocco e pericoloso metterlo a tacere visto che è il
pensiero l’organo indispensabile alla sopravvivenza della specie umana.
Se cominciassimo a comprendere che siamo noi, e non gli stranieri,
quelli che stanno per morire perdendo la specificità della nostra
storia, della nostra religione?
Ida Magli 20 agosto 2008
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