Le reazioni a caldo dei politici al No
degli Irlandesi sono state talmente “rivelatrici” del loro vissuto più
vero e più profondo che è assolutamente doveroso soffermarsi ad
analizzarle. Vorrei possedere la competenza dei commentatori del calcio
e la loro sicurezza di essere, oltre che capiti, anche intuiti dai
lettori, per spiegare con efficacia i reali retroscena - psicologici
prima che politici - della commedia degli inganni che si sta svolgendo
sul palcoscenico della costruzione europea. Il concetto di “biscotto”
(a me ignoto e adoperato dal collega De Bellis nel descrivere il
complesso stato d’animo che gli Italiani stanno vivendo per l’ultima
partita dei campionati europei) mi ha illuminato e non esito ad
applicarlo al complesso gioco nel quale si stanno dibattendo i
governanti dei vari Stati dell’unione per vincere l’ultima partita del
macroscopico campionato giocato contro i popoli d’Europa. Questa è
infatti la verità: il linguaggio ermetico, la sovrapposizione di
innumerevoli burocrazie, la dosatissima e ingannevole informazione, la
lentezza prudenziale con la quale sono stati compiuti i vari passaggi
per giungere a proclamare il Superstato europeo, sono tutti strumenti
accuratamente studiati e messi in atto per portare i cittadini a
combattere contro se stessi, contro ciò che possiedono e che più amano.
Si è trattato di una battaglia difficilissima perché volta ad eliminare
i singoli Stati, le patrie, le identità nazionali; quelle identità che
è impossibile non riconoscere in Verdi o in Petrarca come italiane e in
Bach o in Goethe come tedesche. E’ vero che i governanti hanno
affermato che era sufficiente definirle “europee” e di essere in grado,
contro qualsiasi sistema logico, di poter effettuare il miracolo di
garantire la diversità nell’uguaglianza. Ma non era operazione da poco.
Quando hanno visto che si levavano soltanto deboli proteste contro la
forza magica del potere, hanno fatto un altro passo e hanno tolto i
confini. Certo, i cittadini si sono spaventati dell’enorme afflusso di
immigrati che ne è conseguito, ma, dato che sembrava che non si fossero
accorti di quale fosse il vero significato di questo atto, la
perdita del territorio, i governanti ne hanno tratto la conclusione che
non c’era più nulla da temere. Godiamoci il nostro impero – si sono
detti - e via. Ecco, però, che quando credevano di avercela fatta, è sopraggiunto il no
degli Irlandesi. L’immediato scatto di rabbia dei politici non avrebbe
potuto essere più eloquente. Addio prudenza, addio sacrosanto rispetto
per la volontà popolare, addio regole dell’unanimità: siamo noi che
comandiamo; avanti con le ratifiche; chi non ci vuole stare buttiamolo
fuori; non saranno quei quattro gatti di Irlandesi a fermarci; gli
abbiamo dato un sacco di soldi… Il “vadano al diavolo” non è stato
pronunciato ad alta voce ma è rimbombato nell’aria più forte di un
tuono. Gli Irlandesi (ma insieme a loro tutti noi) hanno subito avuto
la prova così di aver avuto ragione a votare no visto che uno dei
motivi che li hanno spinti a non aderire al trattato è stato proprio il
timore di non poter contare nulla nel consesso europeo a causa del loro
piccolo numero. Non era ancora sbollito il primo impeto di rabbia,
che è cominciata subito da parte dei governanti l’operazione di
recupero, mentendo spudoratamente nel far sapere quali erano a loro
giudizio le cause del voto negativo. La patria, l’indipendenza, sono
parole tabù che nessuno ha pronunciato. Meglio i temi di attualità: la
paura dell’immigrazione, il maledetto caro petrolio. E poi, è colpa del
primo ministro irlandese che non ha saputo spiegare bene il
contenuto del trattato; anzi, riconosciamolo, per quanto riguarda
l’Europa, siamo tutti poco capaci di comunicare, dobbiamo imparare ad
esaltare la democrazia… Questa la facciata. In realtà sono già
all’opera per fingere che la via d’uscita, da lungo tempo prevista,
come afferma il Daily Telegraph
in un articolo dedicato al Trattato come al “più audace colpo di stato
di tutti i tempi”, consista in un doloroso e inevitabile ripiego. C’è
però un’altra ricaduta del voto irlandese che ancora nessuno ha
recepito: la curiosità, la voglia di sapere, la passione che ad un
tratto ha colpito l’opinione pubblica italiana. Ma insomma che cos’è
questo trattato di Lisbona? Perché noi non ne abbiamo saputo nulla?
Domande su domande piovono sui poveri cultori di una materia tanto
noiosa e negletta quanto l’unione europea. Per giunta il fatto che gli
unici che siano stati chiamati a esprimere la propria volontà abbiano
detto di no suscita nell’animo degli Italiani la voglia di schierarsi,
la passione per la lotta, scoprendo così che forse non è giusto essere
stati lasciati fuori dalla mischia. Che il problema riguardi la patria,
l’indipendenza, l’essere italiani, l’hanno intuito subito, con la
sicurezza del malato quando gli si tiene nascosto il cancro. E mai come
adesso gli Italiani hanno sentito che possedere l’Italia è un
grandissimo bene. Difficile spiegare loro che il trattato di Lisbona
contiene tutte le norme per la creazione e per il funzionamento del
Superstato europeo e che, dal momento della sua ratifica, sarà il
Superstato a governare, a giudicare. Mi hanno chiesto: come può essere
“politica estera” tutto questo?
Ida Magli Roma, 15 giugno 2008
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