Oggi è morto Ingmar Bergman
e noi, rimasti adesso, senza di lui, tanto più soli in questi
terribili anni Duemila, riconosciamo di non sapere quasi nulla di lui
così come non sappiamo quasi nulla di noi stessi. Non sappiamo
nulla tranne quello che Bergman ha tentato di dirci in ogni modo, in
tutta la sua opera: la Vita è un tragico gioco con la Morte. Nessuno fra i grandi registi della
nostra epoca aveva capito tanto chiaramente che il gioco si svolgeva
fra la Fanciulla, la Vergine pronta alle Nozze, con la sua veste
bianca, accanto alla sorgente dell’acqua, i suoi lunghi capelli,
vivi come sanno essere vivi soltanto i capelli di una vergine, di una
fanciulla pronta alla deflorazione, e la Morte, essa sì
l’unica davvero viva perché l’unica “vera”. Tutto il
resto è rappresentazione, è sogno, è simbolo, è
immagine dell’Uomo che può vivere soltanto sognando,
rappresentando, immaginando: ma non può vincere mai in questo
gioco. Erano concentrati nei film di Bergman, nel sovrapporsi delle
innumerevoli forme con le quali ha tentato di spiegarlo, i versi di
Shakespeare: “un fiore di fanciulla, deflorato dalla Morte! La
Morte è mio genero, la Morte è il mio erede… Morirò
e lascerò tutto alla Morte: la vita, i miei beni, tutto sarà
della Morte… Oh, da te, odiosissima Morte, sono ingannato, da te,
crudelissima, sono del tutto vinto.” Ho desiderato per tanti anni che
Bergman si convincesse che il suo personaggio, la sua
fanciulla, la sua vergine che gioca con la Morte, fosse
Teresa di Lisieux. Una fanciulla che ci gioca davvero, con i suoi
meravigliosi capelli biondi sparsi sulle spalle, lasciando che la
Morte l’afferri a poco a poco e la trascini con sé dai
quindici ai ventiquattro anni, meditando continuamente sul “tempo”. Il tempo che passa e che
scolorisce tutto quello che sfiora così come scolorisce la
vita. Ho provato a convincerlo facendogli leggere La storia di
un’anima, spiegandogli come un monastero femminile di clausura
sia in realtà un palcoscenico dove si rappresentano, cantando,
i sogni d’amore e di morte di donne innamorate del gioco dell’amore
e della morte. Ho provato a fargli leggere qualcuna delle pagine che
Teresa dedica al “Tempo” perché lei, Teresa, così
come Bergman, sa bene che il Tempo è come la Morte: gioca con
l’Uomo l’unico gioco che l’Uomo può giocare: viverlo
senza conoscerlo, toccarlo quando in realtà è già
fuggito. “Un anno di più appartiene al passato. E’
passato, è passato e mai ritornerà! Come questo anno è
passato, passerà anche la nostra vita e tra poco diremo: “E’ passata”… La morte stessa passerà.” Non sono riuscita, malgrado la sua
gentilezza, a convincere Bergman a trarre un film dal personaggio di
Teresa, ma credo di averne capito a un certo punto i motivi veri,
quelli che lui stesso non ha detto. Teresa è vissuta davvero,
ha amato il gioco della Morte davvero, ha pensato davvero quello che
ha scritto, ha sofferto davvero il silenzio inesplicabile dell’amore
che l’Uomo sogna di vivere e che non potrà vivere mai. Dobbiamo, dunque, lasciare il poeta
alla solitudine della sua sofferenza perché soltanto in questa
solitudine egli può rappresentare la vita come finzione e la
finzione come vita.
Roma, 30 Luglio 2007 |