editoriale 


Il sogno oltre la morte

di Ida Magli 
il Giornale | 31 Luglio 2007


  Oggi è morto Ingmar Bergman e noi, rimasti adesso, senza di lui, tanto più soli in questi terribili anni Duemila, riconosciamo di non sapere quasi nulla di lui così come non sappiamo quasi nulla di noi stessi. Non sappiamo nulla tranne quello che Bergman ha tentato di dirci in ogni modo, in tutta la sua opera: la Vita è un tragico gioco con la Morte.
  Nessuno fra i grandi registi della nostra epoca aveva capito tanto chiaramente che il gioco si svolgeva fra la Fanciulla, la Vergine pronta alle Nozze, con la sua veste bianca, accanto alla sorgente dell’acqua, i suoi lunghi capelli, vivi come sanno essere vivi soltanto i capelli di una vergine, di una fanciulla pronta alla deflorazione, e la Morte, essa sì l’unica davvero viva perché l’unica “vera”. Tutto il resto è rappresentazione, è sogno, è simbolo, è immagine dell’Uomo che può vivere soltanto sognando, rappresentando, immaginando: ma non può vincere mai in questo gioco. Erano concentrati nei film di Bergman, nel sovrapporsi delle innumerevoli forme con le quali ha tentato di spiegarlo, i versi di Shakespeare: “un fiore di fanciulla, deflorato dalla Morte! La Morte è mio genero, la Morte è il mio erede… Morirò e lascerò tutto alla Morte: la vita, i miei beni, tutto sarà della Morte… Oh, da te, odiosissima Morte, sono ingannato, da te, crudelissima, sono del tutto vinto.”
  Ho desiderato per tanti anni che Bergman si convincesse che il suo personaggio, la sua fanciulla, la sua vergine che gioca con la Morte, fosse Teresa di Lisieux. Una fanciulla che ci gioca davvero, con i suoi meravigliosi capelli biondi sparsi sulle spalle, lasciando che la Morte l’afferri a poco a poco e la trascini con sé dai quindici ai ventiquattro anni, meditando continuamente sul
“tempo”. Il tempo che passa e che scolorisce tutto quello che sfiora così come scolorisce la vita. Ho provato a convincerlo facendogli leggere La storia di un’anima, spiegandogli come un monastero femminile di clausura sia in realtà un palcoscenico dove si rappresentano, cantando, i sogni d’amore e di morte di donne innamorate del gioco dell’amore e della morte. Ho provato a fargli leggere qualcuna delle pagine che Teresa dedica al “Tempo” perché lei, Teresa, così come Bergman, sa bene che il Tempo è come la Morte: gioca con l’Uomo l’unico gioco che l’Uomo può giocare: viverlo senza conoscerlo, toccarlo quando in realtà è già fuggito. “Un anno di più appartiene al passato. E’ passato, è passato e mai ritornerà! Come questo anno è passato, passerà anche la nostra vita e tra poco diremo: “E’ passata”… La morte stessa passerà.”
  Non sono riuscita, malgrado la sua gentilezza, a convincere Bergman a trarre un film dal personaggio di Teresa, ma credo di averne capito a un certo punto i motivi veri, quelli che lui stesso non ha detto. Teresa è vissuta davvero, ha amato il gioco della Morte davvero, ha pensato davvero quello che ha scritto, ha sofferto davvero il silenzio inesplicabile dell’amore che l’Uomo sogna di vivere e che non potrà vivere mai.
  Dobbiamo, dunque, lasciare il poeta alla solitudine della sua sofferenza perché soltanto in questa solitudine egli può rappresentare la vita come finzione e la finzione come vita.

Roma, 30 Luglio 2007

 
  
 
 
  

 

 
 
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