editoriale

Al voto per salvare l'Italia

di Ida Magli 
il Giornale | 24 Febbraio 2007

La caduta del governo Prodi non può (e non deve) essere vissuta come una vicenda politica da gestire con gli strumenti messi a punto ormai da decenni, di astuti regolamenti e formali adempienze costituzionali. È venuta l'ora di guardare in faccia la realtà: il «condominio» fra comunismo e Democrazia cristiana è stato imposto dall'esistenza della Russia sovietica e dalla condizione catastrofica nella quale l'Italia si trovava alla fine della guerra. Oggi che non esistono più né l'una né l'altra, ci troviamo di fronte a quello che i marxisti avrebbero voluto fin dall'inizio: il più puro (depurato dal bolscevismo) comunismo in tutte le più importanti cariche dello Stato, sposato, secondo i dettami di Marx, con il capitalismo finanziario e bancario euro-internazionale. Romano Prodi ne è stato fino ad oggi la maschera (appositamente scelta per fare da maschera) e il garante-gestore.
Adesso, dunque, si tratta di una crisi finale, un aut aut per quella maggioranza degli italiani che vede nel comunismo la fine della libertà e che, nei primi mesi di questo governo, ha già potuto constatare come sia facile perderla seguendo i dettami di Marx: attraverso le strutture economiche. Il controllo su ogni conto corrente, la tassazione di ogni anche piccolissima proprietà delegata ai Comuni e alle Regioni, l'etichettatura come massimo crimine di qualsiasi sottrazione al fisco, e al tempo stesso la svendita e la eliminazione del patrimonio della nazione in nome della libertà del Mercato, elevato a unica divinità che possa e debba regolare la vita della società. La distruzione di qualsiasi ruolo, incluso quello della famiglia, ai fini di una assoluta uguaglianza, è anch'essa fin dalle origini nel programma marxiano, e dunque a che pro meravigliarsi o discutere dei Pacs? La conclusione è una sola: il centrodestra deve pretendere che si torni a votare e deve impegnarsi assolutamente a vincere, altrimenti il destino comunista dell'Italia non sarà più evitabile.
Il ritorno al voto avrebbe dovuto essere sentito come un dovere subito, fin dalle ultime elezioni, non soltanto per le controversie sui conteggi, ma soprattutto per il risultato sul quale si è retto il governo Prodi fino alla non approvazione per soli due voti della politica estera. La democrazia, fondata sul concetto di maggioranza e minoranza, è di per sé una forma abbastanza grossolana di assegnazione del potere, e tutti sanno che andrebbe ripensata. Ma è chiaro, anche senza attendere nuovi sistemi elettorali, che sessanta milioni di cittadini non possono non sentire come ingiusto e sopraffattorio che sia il voto di una o due persone a pesare quanto quello di milioni. Uno Stato non è un consiglio di amministrazione di una azienda nella quale ci si trova in cinque o in sette a prendere delle decisioni a maggioranza e in cui basta il voto di uno a prevalere; sarebbe auspicabile, invece, che nelle votazioni nazionali fosse richiesta una maggioranza di almeno il 55% per assegnare la vittoria di una parte sull'altra. Il governo Prodi ha operato, quindi, agli occhi degli italiani sempre sul filo di una scarsa legittimità, tanto più poi quando a pesare sono stati i voti dei senatori a vita, ossia un voto personale in quanto essi non rappresentano nessun gruppo di elettori. Comunque la si voglia giustificare, questa situazione non è giusta agli occhi dei cittadini e non può più essere riproposta, patto o non patto firmato da Prodi con i suoi.
Ci è parso di capire da come si è comportato il Presidente Napolitano fino ad oggi che non gli piacciano le situazioni ambigue. Per sfuggire al riproporsi di una ambiguità al limite della legittimità con la quale si troverebbe a operare, con un voto in più o in meno, un nuovo governo di sinistra, con o senza Prodi, c'è un solo modo: tornare a votare.

Il Giornale n. 47 del 2007-02-24 pagina 1

 
  
 
 
  

 

 
 
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