La
caduta del governo Prodi non può (e non deve) essere vissuta
come una vicenda politica da gestire con gli strumenti messi a punto
ormai da decenni, di astuti regolamenti e formali adempienze
costituzionali. È venuta l'ora di guardare in faccia la
realtà: il «condominio» fra comunismo e Democrazia
cristiana è stato imposto dall'esistenza della Russia sovietica
e dalla condizione catastrofica nella quale l'Italia si trovava alla
fine della guerra. Oggi che non esistono più né l'una
né l'altra, ci troviamo di fronte a quello che i marxisti
avrebbero voluto fin dall'inizio: il più puro (depurato dal
bolscevismo) comunismo in tutte le più importanti cariche dello
Stato, sposato, secondo i dettami di Marx, con il capitalismo
finanziario e bancario euro-internazionale. Romano Prodi ne è
stato fino ad oggi la maschera (appositamente scelta per fare da
maschera) e il garante-gestore.
Adesso, dunque, si tratta di una crisi finale, un aut aut
per quella maggioranza degli italiani che vede nel comunismo la fine
della libertà e che, nei primi mesi di questo governo, ha
già potuto constatare come sia facile perderla seguendo i
dettami di Marx: attraverso le strutture economiche. Il controllo su
ogni conto corrente, la tassazione di ogni anche piccolissima
proprietà delegata ai Comuni e alle Regioni, l'etichettatura
come massimo crimine di qualsiasi sottrazione al fisco, e al tempo
stesso la svendita e la eliminazione del patrimonio della nazione in
nome della libertà del Mercato, elevato a unica divinità
che possa e debba regolare la vita della società. La distruzione
di qualsiasi ruolo, incluso quello della famiglia, ai fini di una
assoluta uguaglianza, è anch'essa fin dalle origini nel
programma marxiano, e dunque a che pro meravigliarsi o discutere dei
Pacs? La conclusione è una sola: il centrodestra deve pretendere
che si torni a votare e deve impegnarsi assolutamente a vincere,
altrimenti il destino comunista dell'Italia non sarà più
evitabile.
Il ritorno al voto avrebbe dovuto essere sentito come un dovere subito,
fin dalle ultime elezioni, non soltanto per le controversie sui
conteggi, ma soprattutto per il risultato sul quale si è retto
il governo Prodi fino alla non approvazione per soli due voti della
politica estera. La democrazia, fondata sul concetto di maggioranza e
minoranza, è di per sé una forma abbastanza grossolana di
assegnazione del potere, e tutti sanno che andrebbe ripensata. Ma
è chiaro, anche senza attendere nuovi sistemi elettorali, che
sessanta milioni di cittadini non possono non sentire come ingiusto e
sopraffattorio che sia il voto di una o due persone a pesare quanto
quello di milioni. Uno Stato non è un consiglio di
amministrazione di una azienda nella quale ci si trova in cinque o in
sette a prendere delle decisioni a maggioranza e in cui basta il voto
di uno a prevalere; sarebbe auspicabile, invece, che nelle votazioni
nazionali fosse richiesta una maggioranza di almeno il 55% per
assegnare la vittoria di una parte sull'altra. Il governo Prodi ha
operato, quindi, agli occhi degli italiani sempre sul filo di una
scarsa legittimità, tanto più poi quando a pesare sono
stati i voti dei senatori a vita, ossia un voto personale in quanto
essi non rappresentano nessun gruppo di elettori. Comunque la si voglia
giustificare, questa situazione non è giusta agli occhi dei
cittadini e non può più essere riproposta, patto o non
patto firmato da Prodi con i suoi.
Ci è parso di capire da come si è comportato il
Presidente Napolitano fino ad oggi che non gli piacciano le situazioni
ambigue. Per sfuggire al riproporsi di una ambiguità al limite
della legittimità con la quale si troverebbe a operare, con un
voto in più o in meno, un nuovo governo di sinistra, con o senza
Prodi, c'è un solo modo: tornare a votare.
Il Giornale n. 47 del 2007-02-24 pagina 1
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