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Geminello Alvi -una certa idea
dell'economia

intervista a cura
di Alfonso Piscitelli
L'Indipendente | 26 Marzo 2006

 
 

A Milano la scorsa settimana in centri sociali hanno inscenato l’ennesimo revival degli anni Settanta, e mentre in televisione continuano ad ondeggiare le imbarazzanti chiome dei Cugini di Campagna, il professor Prodi si appresta a servire agli italiani un piatto dal sapore antico: il compromesso storico tra la sinistra dc e gli “euro-comunisti”. Ovvero i comunisti dell’euro, orgogliosi di aver “risanato l’Italia” negli anni Novanta tassando il lavoro produttivo, vendendo le industrie di Stato agli oligarchi loro amici, mettendo in ginocchio ditte esportatrici e massaie con l’incongruo ingresso nell’euro. In questa Italia, delusa anche nelle speranze di una “rivoluzione liberale”, vive bene chi vive di rendite.
Una repubblica fondata sulle rendite si intitola l’ultimo volume di Geminello Alvi pubblicato da Mondadori. Non è solo un libro di economia: è una profonda introspezione di una società invecchiata nelle idee, gravata sotto il peso di scelte sciagurate intraprese negli anni Settanta e perseguite negli anni Novanta. Alvi indica anche ciò che potrebbe portare a un reale risanamento; ma l’autore non ama i caratteri di piombo di un programma, i suoi pensieri soffiano leggeri e non di rado si intrecciano alle immagini di una rinnovata metafisica.
Abbiamo ascoltato Geminello Alvi mentre descrive questa Italia di baby-pensionati e di adolescenti ritardati, di macchine che divorano il lavoro e di fiction televisive che producono la sete di inediti bisogni.

Una strana figura si aggira per l’Italia: cinquantenne pensionato, con figlio adolescente a carico: adolescente di trent’ anni. Cos’è, una fiction televisiva?

No, è l’effetto di un sistema che ha creato una relazione tra il prezzo del lavoro e le rendite perversa, nettamente sfavorevole per chi lavora, e soprattutto per chi è giovane.

Lei dice che oggi grosso modo c’è un pensionato sulle spalle di ogni lavoratore dipendente non statale.

Di più. Le statistiche dicono che ci sono ci sono sedici milioni e mezzo di pensionati. A fronte di essi in Italia ci sono tredici milioni e mezzo di lavoratori dipendenti. Escludo da essi gli statali, dal momento che essi sono pagati con le tasse imposte alle imprese e ai lavoratori dipendenti. V’è insomma una palese sproporziona tra chi lavora e chi vive di rendita.

Una correlazione pericolosa...

Nel reddito delle famiglie ormai sono più le rendite che i frutti del lavoro: se consideriamo una famiglia media, quello che entra per pensioni, locazioni, interessi supera le entrate del lavoro dipendente. In verità, per comprendere lo stato dell’economia italiana non bisogna far riferimento a indici astratti come il PIL, ma dobbiamo prestare attenzione  proprio alla famiglia, nella quale in definitiva lo stato fa convergere la redistribuzione delle ricchezze. Lo stato trasforma in pensioni le tasse (andando ben oltre quelli che sono i contributi versati). Con i bassi tassi di interessi fa aumentare i prezzi delle case. Ha nutrito così un sistema in cui cresce enormemente la ricchezza delle famiglie; e i redditi difettosi dei giovani vengono surrogati dalle rendite dei  vecchi e dalla crescita dei patrimoni.

Si capisce perché i giovani italiani vivano all’ombra dei matriarcati familiari; quel che si capisce meno è il fascino esercitato su ampie fasce di ventenni di oggi dalle parole d’ordine degli anni ’70.

Eppure i giovani sono stati rovinati dalla invadenza della generazione degli anni Settanta: quella generazione ha preso tutto, ha occupato tutte le posizioni dirigenti (vedi le università). Oggi buona parte di loro è in pensione prima del ragionevole, ed è mantenuta dagli altri che ancora lavorano.

Qualcuno di loro in verità ancora lavora: nei governi della sinistra degli anni Novanta non erano pochi gli uomini usciti dalle esperienze ideologiche di quell’epoca.

Paradossalmente, ma non tanto, quei governi hanno tassato soprattutto il lavoro, lo hanno tassato per ottenere l’euro che è servito a consolidare i patrimoni e a indebolire la posizione dei lavoratori attivi. Questo è stato il grande tradimento della sinistra di governo.

Ma ci viene detto che i sacrifici erano necessari per ossequiare il Santo Euro che ci ha salvati dall’ inferno argentino.

È una menzogna. L’Argentina ha fatto una brutta fine proprio perché aveva legato la propria moneta a un cambio fisso; viceversa, il Brasile ha evitato lo sfascio lasciando oscillare la sua moneta come avveniva con le nostra lira. Al riparo dell’euro, è aumentata la spesa corrente come sarebbe stato impossibile con la lira.

Ma ci dicono che senza l’euro oggi sarebbe una tragedia accostarsi ad una pompa di benzina.

L’osservazione avrebbe un senso se l’euro si fosse comportato come una moneta stabile; ma in realtà l’euro nella sua breve vita ha oscillato più della lira, valutandosi e svalutandosi del 30-40%. Non può vantare di essere una moneta più stabile della lira. Chi si è avvantaggiato davvero della sua abolizione è stata la confindustria tedesca, che ha annullato il saldo attivo di esportazioni italiane verso la Germania.

Non è che la confindustria tedesca ci ha fatto entrare nell’euro così come si fa entrare il topolino nella gabbia?

Per loro c’era un chiaro tornaconto. Per le nostre imprese no. Il vantaggio era la diminuzione dei tassi di interesse. Ma lo stato italiano lo ha subito dilapidato questo risparmio.  

Ma allora i post-comunisti al governo di chi hanno fatto gli interessi?

Si sono trovati a gestire il fallimento del comunismo e per grazia di Tangentopoli  hanno tratto da quella gestione fallimentare pure loro una rendita, divenendo per giunta più realisti del re.

La loro idolatria dell’Europa burocratica non è un po’ la riedizione della teoria della sovranità limitata?

Hanno smesso di ossequiare l’Unione Sovietica, e non gli è parso vero di poter ossequiare un nuovo super-stato europeo. Qualsiasi stato non fosse l’Italia gli è sempre andato bene.

E oggi vedono come fumo negli occhi Tremonti che propone dazi doganali nei confronti della Cina: per loro è il primo passo verso il ritorno all’autarchia.

I dazi dovrebbero essere imposti in modo scientifico, ovviamente non come misura nazionalistica, ma come misura comune europea. Sarebbero un minimo inizio al fine di rendere più equo lo scambio con la Cina.

Ritiene che  le modalità di ingresso della Cina nel WTO siano state incongrue?

Per inserire le automobili del Giappone nel mercato europeo furono prese mille precauzioni. Lo stesso l’unione europea avrebbe dovuto fare nei confronti della Cina e dei suoi prodotti. La verità è che la CEE ha funzionato fin quando aveva la fisionomia di un blocco mercantilista più o meno protetto, quando ha abbandonato la sua natura è divenuta una struttura vuota priva di ogni significato economico reale.

E all’interno di questo spazio vuoto senza senso continuano a penetrare schiere incontrollate di immigrati. Chi esprime preoccupazioni per questi flussi in passato veniva severamente rimproverato; ancora oggi viene ripetuta come un mantra la formula che l’“immigrazione è una risorsa indispensabile, una opportunità”. Dietro questa bella frase non si nasconde una inedita vocazione allo “schiavismo umanitario”?

Anche. L’apertura incondizionata all’immigrazione è la conseguenza di una politica disastrosa fatta nei confronti del lavoro: si è distrutto il lavoro dei giovani, si è pagato poco il lavoro e lo si paga sempre meno, con l’iniezione di emigranti.

Il pensiero conclusivo del suo libro ricorda il motto di un grande dilapidatore di capitali, Gabriele d’Annunzio che diceva: “Io ho quel che ho donato”. Da economista Lei ritiene che l’essenza del denaro sia quella di essere donato, di essere offerto.

L’economia deve avere un fine, che non può essere la crescita in sé stessa, ma deve essere ricercato nella bellezza, nell’arricchimento artistico, nella ricerca spirituale autentica. L’accumulo indefinito del denaro non ha senso, esso a un dato punto deve “decumularsi” per offrirsi alle fondazioni spirituali, educative, artistiche. Ma il decumulo del denaro non può essere gestito dallo stato, deve essere il frutto di un atto di moralità cosciente. Quando lo stato si arroga il diritto di ridistribuire le ricchezze, imponendo gioghi alle categorie produttive e alimentando mille rivoli parassitari, i risultati sono quelli “italiani” che abbiamo descritto. Lo stato deve limitarsi alle funzioni della sicurezza, della giustizia, della politica estera. Deve rivalutare il lavoro diminuendo le tasse e le spese. Deve lasciare a libere fondazioni i compiti della educazione, della ricerca, dell’arricchimento spirituale.

È la visione dell’ordine sociale che in passato fu propria di Rudolf Steiner.

Sì, e purtroppo non riuscì ad attuarla in Germania. In seguito solo pochi ne hanno compreso la fecondità. Adriano Olivetti ad esempio.
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Alfonso Piscitelli
L'indipendente (26/03/2006)

 

 

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