A Milano la scorsa settimana in centri
sociali hanno inscenato
l’ennesimo revival degli anni Settanta, e mentre in televisione
continuano ad ondeggiare le imbarazzanti chiome dei Cugini di Campagna,
il professor Prodi si appresta a servire agli italiani un piatto dal
sapore antico: il compromesso storico tra la sinistra dc e gli
“euro-comunisti”. Ovvero i comunisti dell’euro,
orgogliosi di aver “risanato l’Italia” negli anni
Novanta tassando il lavoro produttivo, vendendo le industrie di Stato
agli oligarchi loro amici, mettendo in ginocchio ditte esportatrici e
massaie con l’incongruo ingresso nell’euro. In questa
Italia, delusa anche nelle speranze di una “rivoluzione
liberale”, vive bene chi vive di rendite.
Una
repubblica fondata sulle rendite si intitola l’ultimo
volume
di Geminello Alvi pubblicato da Mondadori. Non è solo un libro
di economia: è una profonda introspezione di una società
invecchiata nelle idee, gravata sotto il peso di scelte sciagurate
intraprese negli anni Settanta e perseguite negli anni Novanta. Alvi
indica anche ciò che potrebbe portare a un reale risanamento; ma
l’autore non ama i caratteri di piombo di un programma, i suoi
pensieri soffiano leggeri e non di rado si intrecciano alle immagini di
una rinnovata metafisica.
Abbiamo ascoltato Geminello Alvi mentre descrive questa Italia di
baby-pensionati e di adolescenti ritardati, di macchine che divorano il
lavoro e di fiction televisive che producono la sete di inediti
bisogni.
Una strana
figura si aggira per l’Italia: cinquantenne pensionato, con
figlio adolescente a carico: adolescente di trent’ anni.
Cos’è, una fiction televisiva?
No, è l’effetto di un sistema che ha creato una relazione
tra il prezzo del lavoro e le rendite perversa, nettamente sfavorevole
per chi lavora, e soprattutto per chi è giovane.
Lei dice che
oggi grosso modo c’è un pensionato sulle spalle di ogni
lavoratore dipendente non statale.
Di più. Le statistiche dicono che ci sono ci sono sedici milioni
e mezzo di pensionati. A fronte di essi in Italia ci sono tredici
milioni e mezzo di lavoratori dipendenti. Escludo da essi gli statali,
dal momento che essi sono pagati con le tasse imposte alle imprese e ai
lavoratori dipendenti. V’è insomma una palese sproporziona
tra chi lavora e chi vive di rendita.
Una
correlazione pericolosa...
Nel reddito delle famiglie ormai sono più le rendite che i
frutti del lavoro: se consideriamo una famiglia media, quello che entra
per pensioni, locazioni, interessi supera le entrate del lavoro
dipendente. In verità, per comprendere lo stato
dell’economia italiana non bisogna far riferimento a indici
astratti come il PIL, ma dobbiamo prestare attenzione proprio
alla famiglia, nella quale in definitiva lo stato fa convergere la
redistribuzione delle ricchezze. Lo stato trasforma in pensioni le
tasse (andando ben oltre quelli che sono i contributi versati). Con i
bassi tassi di interessi fa aumentare i prezzi delle case. Ha nutrito
così un sistema in cui cresce enormemente la ricchezza delle
famiglie; e i redditi difettosi dei giovani vengono surrogati dalle
rendite dei vecchi e dalla crescita dei patrimoni.
Si capisce
perché i giovani italiani vivano all’ombra dei matriarcati
familiari; quel che si capisce meno è il fascino esercitato su
ampie fasce di ventenni di oggi dalle parole d’ordine degli anni
’70.
Eppure i giovani sono stati rovinati dalla invadenza della generazione
degli anni Settanta: quella generazione ha preso tutto, ha occupato
tutte le posizioni dirigenti (vedi le università). Oggi buona
parte di loro è in pensione prima del ragionevole, ed è
mantenuta dagli altri che ancora lavorano.
Qualcuno di
loro in verità ancora lavora: nei governi della sinistra degli
anni Novanta non erano pochi gli uomini usciti dalle esperienze
ideologiche di quell’epoca.
Paradossalmente, ma non tanto, quei governi hanno tassato soprattutto
il lavoro, lo hanno tassato per ottenere l’euro che è
servito a consolidare i patrimoni e a indebolire la posizione dei
lavoratori attivi. Questo è stato il grande tradimento della
sinistra di governo.
Ma ci viene
detto che i sacrifici erano necessari per ossequiare il Santo Euro che
ci ha salvati dall’ inferno argentino.
È una menzogna. L’Argentina ha fatto una brutta fine
proprio perché aveva legato la propria moneta a un cambio fisso;
viceversa, il Brasile ha evitato lo sfascio lasciando oscillare la sua
moneta come avveniva con le nostra lira. Al riparo dell’euro,
è aumentata la spesa corrente come sarebbe stato impossibile con
la lira.
Ma ci dicono
che senza l’euro oggi sarebbe una tragedia accostarsi ad una
pompa di benzina.
L’osservazione avrebbe un senso se l’euro si fosse
comportato come una moneta stabile; ma in realtà l’euro
nella sua breve vita ha oscillato più della lira, valutandosi e
svalutandosi del 30-40%. Non può vantare di essere una moneta
più stabile della lira. Chi si è avvantaggiato davvero
della sua abolizione è stata la confindustria tedesca, che ha
annullato il saldo attivo di esportazioni italiane verso la Germania.
Non è
che la confindustria tedesca ci ha fatto entrare nell’euro
così come si fa entrare il topolino nella gabbia?
Per loro c’era un chiaro tornaconto. Per le nostre imprese no. Il
vantaggio era la diminuzione dei tassi di interesse. Ma lo stato
italiano lo ha subito dilapidato questo risparmio.
Ma allora i
post-comunisti al governo di chi hanno fatto gli interessi?
Si sono trovati a gestire il fallimento del comunismo e per grazia di
Tangentopoli hanno tratto da quella gestione fallimentare pure
loro una rendita, divenendo per giunta più realisti del re.
La loro
idolatria dell’Europa burocratica non è un po’ la
riedizione della teoria della sovranità limitata?
Hanno smesso di ossequiare l’Unione Sovietica, e non gli è
parso vero di poter ossequiare un nuovo super-stato europeo. Qualsiasi
stato non fosse l’Italia gli è sempre andato bene.
E oggi vedono
come fumo negli occhi Tremonti che propone dazi doganali nei confronti
della Cina: per loro è il primo passo verso il ritorno
all’autarchia.
I dazi dovrebbero essere imposti in modo scientifico, ovviamente non
come misura nazionalistica, ma come misura comune europea. Sarebbero un
minimo inizio al fine di rendere più equo lo scambio con la Cina.
Ritiene
che le modalità di ingresso della Cina nel WTO siano state
incongrue?
Per inserire le automobili del Giappone nel mercato europeo furono
prese mille precauzioni. Lo stesso l’unione europea avrebbe
dovuto fare nei confronti della Cina e dei suoi prodotti. La
verità è che la CEE ha funzionato fin quando aveva la
fisionomia di un blocco mercantilista più o meno protetto,
quando ha abbandonato la sua natura è divenuta una struttura
vuota priva di ogni significato economico reale.
E
all’interno di questo spazio vuoto senza senso continuano a
penetrare schiere incontrollate di immigrati. Chi esprime
preoccupazioni per questi flussi in passato veniva severamente
rimproverato; ancora oggi viene ripetuta come un mantra la formula che
l’“immigrazione è una risorsa indispensabile, una
opportunità”. Dietro questa bella frase non si nasconde
una inedita vocazione allo “schiavismo umanitario”?
Anche. L’apertura incondizionata all’immigrazione è
la conseguenza di una politica disastrosa fatta nei confronti del
lavoro: si è distrutto il lavoro dei giovani, si è pagato
poco il lavoro e lo si paga sempre meno, con l’iniezione di
emigranti.
Il pensiero
conclusivo del suo libro ricorda il motto di un grande dilapidatore di
capitali, Gabriele d’Annunzio che diceva: “Io ho quel che
ho donato”. Da economista Lei ritiene che l’essenza del
denaro sia quella di essere donato, di essere offerto.
L’economia deve avere un fine, che non può essere la
crescita in sé stessa, ma deve essere ricercato nella bellezza,
nell’arricchimento artistico, nella ricerca spirituale autentica.
L’accumulo indefinito del denaro non ha senso, esso a un dato
punto deve “decumularsi” per offrirsi alle fondazioni
spirituali, educative, artistiche. Ma il decumulo del denaro non
può essere gestito dallo stato, deve essere il frutto di un atto
di moralità cosciente. Quando lo stato si arroga il diritto di
ridistribuire le ricchezze, imponendo gioghi alle categorie produttive
e alimentando mille rivoli parassitari, i risultati sono quelli
“italiani” che abbiamo descritto. Lo stato deve limitarsi
alle funzioni della sicurezza, della giustizia, della politica estera.
Deve rivalutare il lavoro diminuendo le tasse e le spese. Deve lasciare
a libere fondazioni i compiti della educazione, della ricerca,
dell’arricchimento spirituale.
È la
visione dell’ordine sociale che in passato fu propria di Rudolf
Steiner.
Sì, e purtroppo non riuscì ad attuarla in Germania. In
seguito solo pochi ne hanno compreso la fecondità. Adriano
Olivetti ad esempio.
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Alfonso Piscitelli
L'indipendente
(26/03/2006) |