Lo spettacolo italiano di scomposta allegria per «la sconfitta di
Bush» è piuttosto un ritratto della sinistra
mediocrità della sinistra italiana: tutto ciò che viene
propinato e ammannito in genere da giornali e telegiornali
politicamente corretti in questi giorni, è falso. E la sinistra
italiana se ne accorgerà proprio a proposito della politica
estera americana. Tanto per cominciare, e come noi avevamo previsto
(malgrado le apparenze che, come sempre, ingannano) il presidente
americano non è stato affatto sconfitto. Capisco che questa
affermazione manderà in bestia un sacco di gente che l'America
non la conosce, ma il fatto è che il presidente non può
mai essere sconfitto finché è in carica come un re
francese, al quale un Congresso ostile può al massimo lesinare i
finanziamenti.
Ma Bush non è stato neppure sconfitto politicamente, malgrado le
apparenze, ma semmai integrato e lievemente, solo lievemente, corretto.
Non è per un caso che i presidenti americani quando hanno guai
interni si buttano sulla politica estera, dove possono fare quel che
vogliono senza doverne render conto a nessuno e senza che nessuno possa
creare altri contrasti che non siano specifiche commissioni
d’inchiesta su questo o quel singolo fatto. Questo in linea di
principio. C'è poi la nuova composizione del Congresso, che
paradossalmente è più a destra di prima, di cui diremo
fra poco. Bush dunque sull’Irak ascolterà con attenzione
ciò che ha da dire il Partito democratico, ma ascolterà
nel senso che chiederà consiglio su come vincere la guerra, non
su come scappare dal terreno iracheno. Se lo scordino le sinistre
italiane e quelle ineffabili telegiornaliste con la kefiah sul e
intorno al cervello che all’alba danno le notizie sugli Stati
Uniti con l’espressione di chi esce da un amplesso
particolarmente soddisfacente.
Vanno tenuti in considerazione alcuni fatti caratteristici della
democrazia americana e alcuni fatti di queste elezioni. Primo: di norma
negli Stati Uniti il Congresso e il Senato hanno una maggioranza del
partito d’opposizione. Gli elettori che eleggono un presidente
repubblicano, in genere poi votano un congressman democratico e
viceversa. Pesi e contrappesi, un gioco di garanzie. È dunque
del tutto normale che con un presidente repubblicano Congresso e Senato
siano democratici ed è stata una significativa anomalia che
finora il Presidente avesse entrambe le Camere dalla sua parte.
Secondo. Queste elezioni, piaccia o non piaccia alla sinistra italiana
e dei militanti nella disinformazione, sono state vinte negli Stati
Uniti dalla destra. Per due motivi. Il primo è che i membri
repubblicani non rieletti erano centristi e moderati, mentre quelli
vicini ai neocon sono stati tutti rieletti, il che sposta a destra il
baricentro repubblicano. E il secondo motivo è che i democratici
eletti al Congresso sono per lo più non dei
«liberal» di sinistra, ma centristi o gente di destra ed
estrema destra come capita nel Sud dove il partito democratico è
storicamente di destra.
Terzo fatto significativo. La donna democratica più
«liberal» eletta, più di sinistra in termini dei
diritti dei gay, pacifismo, aborto è l’italoamericana
Nancy Pelosi, acerrima nemica di Bush, che però Bush ha invitato
a colazione alla Casa Bianca e che si è mostrata estremamente
flessibile, gentile e sugli attenti malgrado le divergenze. Nancy
Pelosi sarà la Speaker del Congresso, cioè la persona che
presiederà a tutte le mediazioni fra Parlamento e re-presidente.
Quarto. Il ministro della Difesa Rumsfeld ha messo la sua testa sul
piatto e si è dimesso, come responsabile di una pessima
conduzione della guerra in Irak, ma non come pentito della guerra in
Irak. Gli intellettuali americani criticano sia da destra che da
sinistra l’amministrazione Bush perché ha commesso
l’imperdonabile errore di considerare vinta una guerra che doveva
ancora essere combattuta, mantenendo in Irak un contingente da polizia
militare, 140mila uomini, anziché un rispettabile corpo di
spedizione di 600mila, quanti ne occorrerebbero per controllare il
territorio. Quindi chi pensa che Bush sia stato sconfitto
sull’Irak e che, messo alle corde dai vincitori democratici,
adesso si ritirerà con la coda tra le gambe, sbaglia, ma
più che altro mente a se stesso e agli italiani se ricopre
incarichi di informazione sul servizio pubblico, come nei grandi
giornali.
Quinto. Il sentimento americano rispetto alla guerra in Irak non ha
nulla a che vedere con quel che si pensa in Italia. Gli americani che
pagano le tasse sono frustrati da una conduzione della guerra
tentennante e vorrebbero vedere la fine di questo conflitto nel senso
che vogliono la vittoria, non l’umiliazione.
E sesto, il punto centrale della questione americana, quello da cui
siamo partiti: il monarca presidente, come un console romano, ha le
mani libere, totalmente libere proprio e soltanto nel periodo che va
dalle ultime elezioni di midterm, fino alla fine del suo mandato. Non
deve più pensare a proteggere il suo partito, non si deve
preoccupare della propria rielezione, vuole soltanto passare alla
storia, chiudere le sue guerre in modo vittorioso e lasciare una
traccia indelebile che lo consacri un grande della sua patria.
Questo spiega perfettamente perché Bush non ha mai pensato, e
meno che mai adesso sta pensando, ad andarsene dall’Irak come un
vinto. Anzi, è nel corso di questo periodo magico di sostanziale
sovrana autonomia che Bush potrebbe decidere che cosa fare
dell’Iran nel momento in cui la tirannia che governa questo Paese
avrà varcato il punto di non ritorno dell’arricchimento
dell’uranio usabile per fini militari. Inoltre, la guerra fredda
fra Stati Uniti e Russia di Putin cova sotto la cenere: la Casa Bianca
sa che dietro il vecchio Irak c’era l’Unione Sovietica e
poi la Russia, che dietro il riarmo missilistico iraniano
c’è la Russia, che i missili iraniani consegnati ad
Hezbollah attraverso la Siria sono russi e che russe sono le armi
anticarro che vengono consegnate ai libanesi, con istruttori russi che
insegnano quale missile usare a seconda del modello di carro
israeliano. Sa anche che i missili coreani sono cinesi fabbricati su
licenza russa e che mai i rapporti sono stati così problematici
fra Usa e Russia, dopo la fallita partnership contro il terrorismo
islamico di cui la Russia si è servita soltanto per massacrare
la Cecenia in nome del contenimento antislamico.
Infine il Libano. Condoleezza Rice ha «con dolcezza»
(questo il vero nome che per lei aveva scelto suo padre, un cultore
dell’opera lirica italiana) appoggiato questo famoso sforzo del
cosiddetto multilateralismo europeo. Ma la Casa Bianca e la Segreteria
di Stato non hanno alcuna intenzione di lasciare l’Europa libera
di mettere gli stivali in Medio Oriente proteggendo l’Iran e
colpendo Israele. Questa amministrazione non si fida affatto
dell’Europa anche se trova molto conveniente metterla alla prova.
E detesta, profondamente detesta le Nazioni Unite considerate un
ricettacolo di antiamericanismo unilaterale, che lascia marcire
conflitti ma che finge di avere una politica estera, purché sia
antiamericana. Queste sono impressioni molto franche e dirette che ho
raccolto personalmente in colloqui diretti che ho avuto a Washington
con autorità americane che si occupano di Europa.
L’amministrazione Bush è stata battuta dal logoramento
iracheno, da alcuni scandali e dalla delusione di molti intellettuali
che avevano creduto in una svolta radicale della politica americana,
non tanto per esportare la democrazia con le armi, ma per garantire un
allargamento dell’area democratica con ogni mezzo, compresi
quelli economici, culturali e politici, purché sempre sostenuti
dal «nodoso bastone», per usare la famosa frase di Theodore
Roosevelt, del possibile ricorso alla forza militare.
Bush ha capito che qualcosa va corretto nella sua politica e che i
democratici possono fornire un aiuto, quello sì bipartisan, per
vincere la guerra in Irak, in Afghanistan e contro il terrorismo,
avendo non uno ma entrambi gli occhi aperti sulle brutte novità
dell’America latina dove al rischio di Chavez si aggiunge quello
di un Nicaragua castrista proprio nel momento di massimo declino, e
quindi massima pericolosa instabilità, del castrismo. Ma
l’America che esce dalle urne del 9 novembre è quella che
era: un po’ più a destra malgrado tutto, disincantata,
consapevole degli errori commessi, aperta alle critiche, ma mai come
ora monolitica, repubblicanamente monarchica, e con una democrazia
splendida che funziona perfettamente con il suo sistema di checks and
balances, pesi e contrappesi, grazie ai quali la politica può
svilupparsi in modo forte e chiaro e sotto gli occhi vigili di un
elettorato che non perdona. Se Bush giocherà bene il suo finale
di partita, il Gop, il partito repubblicano, sarà ancora in
sella, visto che i democratici non hanno più saputo mettere
insieme una politica e una strategia. E allora potrebbero maturare i
tempi per portare alla Casa Bianca per la prima volta una donna, non
Hillary che non ha alcuna chance oltre New York, ma la prima donna
afroamericana che affianca il Presidente degli Stati Uniti
d’America.
il
Giornale 11-11-06
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