Editoriale   il Giornale

 

Mandiamo in pensione
l'idea marxista del lavoro

 
di Ida Magli
il Giornale | Giovedì 10 Luglio 2003

Il problema delle pensioni non può essere affrontato soltanto con gli strumenti dei politici e dei sindacati, né (come è stato autoritariamente ventilato) con la forza dell’imposizione da parte dell’Unione Europea. Quello della lunghezza della vita è infatti un problema che non si è mai posto in precedenza in nessuna società per una serie di motivi, alcuni dei quali facilmente intuibili, ma di cui si continua a non voler discutere. Come tutti sanno il prolungamento di quasi trenta anni della durata media della vita si è verificato soltanto dopo la seconda guerra mondiale nei Paesi più ricchi, ed è dovuto in massima parte all’alimentazione, all’igiene, al debellamento della mortalità per parto. La nostra organizzazione sociale è fondata però sulla visione del mondo marxista, nata e sviluppatasi in un contesto del tutto diverso nel quale la durata media della vita era intorno ai 55 anni per gli operai di sesso maschile, intorno ai 60 per i contadini, i quali sono stati sempre meglio degli operai come dimostra la furia marxista contro di loro, e intorno ai 35 anni per le donne a causa appunto dell’incidenza della mortalità per parto.

Il problema, dunque, che dobbiamo affrontare consiste nel superamento dei due presupposti marxisti dai quali dipende il problema insolubile delle «pensioni». Il primo è che la vita dell’uomo è «lavoro» (si chiama infatti tempo libero quello in cui non lavora) e che quindi, qualsiasi cosa faccia, deve essere retribuito; il secondo è che la società si fonda sul «lavoro» (come recita anche la Costituzione italiana), per cui il «pensionato» è indispensabile ai significati creati dal lavoro e non può liberarsene sganciandosi dal sistema totale. L’etichetta indifferenziata di «pensionato» corrobora quella di lavoratore. Discendono da questi presupposti il concetto di diritto alla pensione e di età pensionabile i quali sono chiaramente incompatibili oggi con i significati che la durata della vita porta con sé, oltre che con la catastrofe economica inevitabilmente connessa al sistema della redistribuzione del reddito.

Cosa fare dunque se nessuno può e vuole progettare il proprio futuro pensandolo legato a più di quarant’anni di un lavoro sempre uguale soltanto per avere diritto ad una pensione? E chiaro che bisogna ritornare a fare perno sulla libertà e la responsabilità dell’individuo, sganciandosi dai valori ugualitaristici imposti dallo Stato. Ma occorre un grande coraggio da parte dei governanti, e prima di tutto quello di parlare chiaramente, al di fuori dei proclami retorici dei sindacati o di qualche partito che cerca facili consensi. La grande maggioranza degli italiani, e soprattutto di coloro che hanno votato per il centrodestra, è fornita di buon senso, di spirito pratico, e non vuole essere ingannata su un problema così determinante per se stessa e per i propri figli. E, per esempio: in quale modo investire i risparmi - cosa che gli italiani hanno sempre amato fare - oggi che i Bot non coprono l’inflazione e la Borsa garantisce soltanto perdite? L’attuale governo è zeppo di economisti, di banchieri, e gli italiani sarebbero pronti a fidarsi se Tremonti inventasse qualcosa come dei Bot ad uso risparmio pensionistico, mentre è evidente che non possono più fidarsi di nessun «fondo» date le amare esperienze già fatte. Insomma il problema della redditività del risparmio è ormai un problema fondamentale, né si può chiedere agli italiani forniti di buon senso di «consumare» i propri soldi proprio nel momento nel quale si trema per il proprio futuro.

Così pure: come salvarsi, ammesso che si riesca a comprarsi una casa, dalle spese obbligatorie che i Comuni sono pronti ad inventarsi, come salvarsi dalla fame del fisco statale, regionale, comunale che hanno reso amaro agli italiani perfino il possesso della casa? Insomma è venuto il momento di desacralizzare il «lavoro» e la «pensione» come essenza del tempo della vita. I giornalisti si sono abituati a chiamare «ragazzi» gli uomini di trent’anni, ma sanno bene che non è vero perché mai come oggi il significato del tempo non riesce ad essere codificato dalla società. E' l’uomo che dà valore al tempo della propria vita, sia che sogni, sia che pensi, sia che canti, sia che ami, sia che preghi, sia che fabbrichi utensili, sia che pianti pomodori o li raccolga. E' questa la sua libertà. Una libertà che vuole usare anche e soprattutto per vivere in pienezza tutto il tempo della vita, rifiutando quella quasi morte cui lo si vuole condannare con l’imposizione della «pensione-non lavoro». Dissociarsi dalla catena di montaggio della redistribuzione marxista è il segno di una nuova epoca.

Ida Magli

 

 

 

 

  SOMMARIO