Malgrado sia vero e
profondo il dolore per la morte dei militari italiani in Irak, c’è
qualcosa, nel fiume di parole che scorrono ininterrottamente da tutti
i mezzi d’informazione, di non detto, e che tuttavia si percepisce
proprio perché non detto.
Chi oserebbe, fra i giornalisti, fra i politici, fra i sacerdoti,
chiamati tutti a commentare, in un modo o nell’altro, la tragicità di
questo episodio, rivelare l’enormità del trauma che sconvolge
l’Italia? Se proviamo qui ad analizzarlo, lo facciamo con timore, con
rispetto, soltanto nella speranza che possa essere utile per
affrontare la durezza della realtà. Perché di questo si tratta:
affrontare la realtà. Una realtà che è stata a lungo messa da parte,
quasi non esistesse: la vita umana è conflitto, è scontro, è rischio,
è dubbio, è timore, è paura. Possiamo dominare tante malattie,
possiamo andare sulla Luna o progettare macchine sempre più veloci,
possiamo conoscere molte lingue e incontrare tanti popoli diversi, ma
una cosa continuiamo a non conoscere, fingendo di conoscerla: l’uomo.
La sorpresa, il trauma di questi giorni dipende soprattutto da questo:
non sappiamo, non comprendiamo, non siamo in grado né di capire, né di
prevedere le passioni che agitano il cuore di uomini – uguali a noi,
uguali a noi: quante volte ce lo siamo ripetuto in questi anni? - che
si gettano nella morte all’improvviso, preparando con cura e in
segreto la propria morte pur di provocare quella di altri uomini.
E’ saltata in aria, insieme al camion, la ninna nanna nella quale ci
eravamo cullati, fatta di “pace”, di “solidarietà”, di “bontà”;
aiutati purtroppo, anzi spinti dai governanti, dai sacerdoti, a
credere che i nostri “valori” dovessero apparire validi a tutti, e, in
definitiva, che noi, soprattutto noi, gli Italiani-brava gente, non
saremmo stati toccati dal fantasma del male che si aggira nel mondo.
Adesso, al di là della sofferenza per la morte dei nostri giovani, c’è
uno smarrimento profondo che dobbiamo guardare in faccia affinché non
si configuri esclusivamente come “paura”, priva di spiegazioni. Prima
di tutto, l’errore fondamentale compiuto dai nostri politici nel non
voler definire “guerra“ il terrorismo. E’ una guerra, invece, con un
centro strategico ben preciso e che deve essere affrontata con mezzi
adeguati, selettivi, bellici. Chiamarle missioni di pace non soltanto
non serve, ma aumenta sia il pericolo sia la paura. E’ questo,
infatti, che ha reso così angoscioso il dolore di questi giorni: i
nostri giovani non sono morti per difendere la patria, e dunque si è
costretti a descriverli più o meno come “missionari”, che si prendono
cura dei bambini, e la loro morte appare ingiusta, e i “nemici” uomini
incomprensibili. Ne sono morti quattro insieme ai nostri, ma, non
essendo stata dichiarata una guerra, non si riesce a dare un volto
umano al nemico, cosa che, invece, nelle guerre succede sempre. Per
questo sono convinta che dobbiamo smetterla di giocare con le parole,
fingendo che siano i nomi a cambiare il significato delle azioni.
Sbagliano ancor di più quelle sinistre che suggeriscono di andarsene
dai luoghi pericolosi perché l’Italia non fa guerre.
Il mondo musulmano ha dichiarato guerra all’Occidente a causa dei
valori, dei comportamenti, dei costumi, delle religioni
dell’Occidente, oltre che alla volontà dell’Occidente di esportarli,
sotto il nome di “democrazia”, nei paesi di dominio musulmano o
prevalentemente musulmano. Se la diplomazia vuol fingere che non tutti
i paesi musulmani sono “integralisti”, lo faccia solo e soltanto
nell’ambito diplomatico; ma non dimentichi mai che nella realtà le
cose non stanno così. I musulmani sono credenti: è errato e inutile
proiettare su di loro il nostro modo di vivere una religiosità di
comodo, che distingue fra chi è praticante e chi non lo è. Quindi,
anche senza voler tener conto del fatto che andarsene adesso
significherebbe consegnarsi, con la viltà, a chiunque voglia
aggredirci, non servirebbe ad eliminare il rischio di attacchi
terroristici, ma anzi lo aumenterebbe.
Dunque gli Italiani sono chiamati a riflettere in modo diverso
sull’epoca che stiamo vivendo, e prima di tutto sul fatto che abbiamo
bisogno di coraggio. Coraggio nel difendere anche noi le idee nelle
quali crediamo; la nostra terra, la nostra lingua, la nostra storia,
la nostra arte, la nostra religione. Senza avere qualcosa da
difendere, si diventa preda della paura e non si osa rivelare che si
ha paura. Diciamolo, invece: abbiamo paura, ma siamo pronti a
difenderci. □ |