Editoriale  

Il Giornale


INTELLETTUALI

Un secolo di guerra dalla parte sbagliata

 
di Giordano Bruno Guerri
Il Giornale | 14 Febbraio 2003

 

La guerra all’Irak è anche una guerra fra intellettuali, come tutte le guerre recenti. Dai tempi del Patto di Monaco, 1938, l’intellighenzia mondiale si divise fra chi lo trovò uno splendido accordo e chi invece lo giudicò l’inizio della fine. Destra e sinistra lo considerarono, grossolanamente, una panacea ai mali dell’Europa. In realtà, come oggi sappia­mo, dare credito alla Germania nazista fu un errore grossolano nel quale caddero non solo i governi democratici ma anche tutti gli intellettuali che, nel mondo, volevano a tutti i costi la pace. Fu una frattura intellettuale, prima ancora che politica, il patto Ribbentrop-Molotov fra comunismo e nazismo, e la successiva spartizione della Polonia che dimostrò la vanità inutile di ideali che niente avevano a che fare con la politica reale. Tuttavia per quasi due anni, fino a quando Hitler non decise di invadere l’Unione Sovietica, i pacifisti, e in particolare i comunisti, deprecarono l'aggressione nazista alla Polonia ma dovettero accettarne la spartizione fra Mosca e Berlino e in seguito non poterono bollare d’infamia la guerra imperialista di Stalin contro la piccola Finlandia. Oggi si corre il rischio di fare gli stessi clamorosi errori, e del resto la storia delle guerre è una storia di errori, di orrori ma anche di assolute necessità.

Almeno fino al Novecento, quando la guerra era ancora una «nobile giostra», gli uomini d’ intelletto - oggi «intellettuali» - sono stati quasi sempre cantori, cultori, propugnatori dello scontro armato. «Guerra è madre di tutte le cose, di tutte Regina», scrisse Eraclito, ed esaltatori della guerra, pur deprecandone i lutti, furono Omero e Dante, su su fino ai grandi poeti del Rinascimento (Orlando Furioso, «La Gerusalemme liberata»), per non dire di Niccolò Machiavelli, che all’»Arte della Guerra» dedicò un trattato. Anche per i papi, tranne che per quel sospiro che nella storia è l’ultima manciata di decenni, le guerre erano sempre giuste, quando servivano, e servivano spesso. Guerrafondai furono gli intellettuali che dettero vita al Risorgimento, e poco conta che si trattasse di guerre di liberazione, ché lo scopo di qualsiasi guerra è sempre nobile per chi le fa.

Le cose cominciarono a cambiare con la nascita dell’internazionalismo socialista, sul finire dell’Ottocento, e più ancora dopo la Prima Guerra Mondiale.

Per l’utopia comunista la guerra era uno strumento dell’imperialismo e del capitalismo cui il proletariato doveva opporsi: un pensiero per niente recepito dal vertici politici dello stesso comunismo, che avrebbe dato luogo a un potere e a un imperialismo fondato sulle canne dei fucili. Lenin e Stalin ne sono begli esempi, ma niente chiarisce il concetto come la frase pronunciata in un comitato segreto da Mao Tse-tung negli anni Sessanta, quando si prospettava la reale possibilità di una guerra contro l’Urss, e i cinesi erano appena seicento milioni: «Posso permettermi di perdere trecento milioni di cinesi».

Ignari o più spesso noncuranti di queste realtà oggettive, gli intellettuali di sinistra (vedremo poi la destra) si sono quasi sempre dichiarati contrari a qualsiasi conflitto. A partire, in Italia, dalla guerra di Libia del 1911, definita dall'Internazionale «un atto di brigantaggio», mentre non mancava già allora chi vedeva nella sconfitta dell’impero turco-ottomano, islamico, una battaglia di civiltà, mentre due giovani intellettuali socialisti che avrebbero fatto strada i Pietro Nenni e Benito Mussolini - furono arrestati e fecero qualche mese di galera per avere manifestato duramente contro la guerra.

Quando l’Italia, il 3agosto1914, dichiarò la sua neutralità nella Prima Guerra Mondiale, gruppi inizialmente neutralisti cambiarono presto posizione, consci che non si poteva rimanere fuori da uno scontro che avrebbe cambiato il mondo: repubblicani, radicali, socialisti riformisti, alcuni rappresentanti del sindacalismo rivoluzionario come Alceste De Ambris e Filippo Corridoni. Infine Mussolini, sull’Avanti! del 18 ottobre, con l’articolo «Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante», scrisse che i socialisti non potevano permettersi un atteggiamento idealistico come quello della «neutralità assoluta», se non volevano rimanere tagliati fuori dalla storia e dalla politica del Paese. L’articolo costò all’autore la direzione dell’Avanti! ma il neutralismo del Psi impedì sia che le masse sociali­ste (trasformando la guerra in guerra rivoluzionaria, come fece Lenin in Russia) tentassero di prendere il Potere; sia che, affiancandosi alla borghesia, si inserissero a pieno titolo nella vita del Paese. Il futuro duce aveva capito che la rivoluzione socialista doveva essere qualcosa di diverso da mito ottocentesco, e che la teoria marxista andava adattata alle esigenze mutevoli della realtà, mentre i quadri dirigenti del Psi continuavano ottusamente a prendere Marx alla lettera: per loro, come per la sinistra di oggi, la guerra era soltanto un’espressione dell’imperialismo capitalista e in quanto tale doveva essere boicottata. Quando nel 1915 l’Italia intervenne nel conflitto, i sindacati socialisti lanciarono il motto «Né aderire né sabotare» ­sinistramente simile a uno di sessant’anni dopo, «Né con lo Stato né con le Br», e all’odiemo cossuttiano «Né con Bush né con Saddam», mentre il Psi lanciò la parola d’ordine «Faccia la borghesia italiana la sua guerra», anche se il bello slogan non impedì che i proletari dovessero partire per ll fronte. Oggi sappiamo che una vittoria dell’Austria e della Germania avrebbe impedito per tutto il Novecento e forse oltre lo sviluppo della democrazia europea.

Adesso sbaglia allo stesso modo chi considera la guerra all’ Irak soltanto una guerra per il petrolio e ritiene che tutte le culture debbano essere rispettate, anche quando sono palesemente arretrate, aggressive, ostili e in piena - interferente contraddizione con i principi sui quali l’Occidente fonda da più di due secoli la sua civiltà. Non si vuol dire, per principio, che questa nostra civiltà è superiore? Si ammetta almeno, non vedo come non si possa riconoscerlo, che ha dato frutti di gran lunga migliori.

Mussolini, a differenza dei suoi compagni, aveva capito che soltanto con la guerra si poteva giocare il passaggio tra il liberalismo e il socialismo. Oggi il pacifismo a priori (della sinistra e di tutte le altre buonanime) non capiscono che è in ballo uno scontro fra culture, di cui una è tragicamente antidemocratica, illiberale e perciò antipopolare.

La «destra» e gli intellettuali di «destra», all’inizio della Prima Guerra Mondiale, ebbero un atteggiamento altrettanto irrazionale cantando la guerra come «sola igiene del Mondo» (Filippo Tommaso Marinetti) e con i versi di Guillaume Apollinaire «Ah, Dio, com’è bella la guerra / con i suoi canti e i suoi lunghi ozi». Se ne sarebbero accorti, di quanto fosse poco bella, nel fango delle trincee e con i massacri sistematici voluti più dal propri generali che dal nemico. Battaglioni di poeti, su tutti i fronti, cantarono il dolore e l’atrocità di quel conflitto, e bastino per tuffi i versi del più grande, Giuseppe Ungaretti, che non ho tempo di rintracciare ma di cui ricordo: «Come questa pietra del Carso così fredda così dura così prosciugata così refrattaria così totalmente disanimata. Come questa pietra è il mio pianto che non si vede. La morte si sconta vivendo».

L’intelligenza di destra e di sinistra, tuttavia, si trovarono nuovamente contrapposte sulla necessità di uccidere, in Europa, durante la Guerra Civile Spagnola, 1936-39. Destra tutta da una parte, sinistra tutta dall’altra, in un conflitto neppure loro. Conflitto ideologico, e perciò di civiltà. Per i cinquant’anni successivi una storiografia di ispirazione marxista ha bollato come reazionario l’intervento tedesco e italiano a fianco dei franchisti. Quell’intervento però - così brutale come testimoniano i bombardamenti di Guernica e Barcellona - aveva lo scopo di impedire che la Spagna diventasse un Paese comunista. Ingerenza, dunque. Aggressione, certo: ma oggi che sappiamo a quali frutti ha portato il comunismo, cosa sarebbe stato della Spagna se vi si fosse instaurato un regime comunista? Sarebbe l’evolutissimo Paese rinato dopo il franchismo o si troverebbe nelle condizioni della Romania?

Lo stesso discorso può essere fatto per guerre recentissime. Quella di Corea del 1950-53,tanto osteggiata dal pacifisti ma senza la quale avremmo una Corea interamente comunista, affamata e bombatomista. O come la guerra del Vietnam, sciaguratamente condotta ­sotto ogni punto di vista - e sciaguratamente persa. (Lo dice uno, il sottoscritto, che ebbe il suo primo fermo in questura, il primo processo e una notte in guardina, 1967, per avere manifestato contro quella guerra, necessaria, opportuna, giusta, chiamatela come volete.) Se ne sono resi conto, con me, persino tanti intellettuali americani noti e meno noti, mentre non sembrano essersene resi conto tanti grilli cantanti dell’intelligenza italiana, pacifisti costi quel che costi, costi anche l’andare contro la storia e la civiltà.

Veniamo ancora più vicino a noi. La partecipazione italiana alle operazione di «tutela della pace» cominciò nel 1948 con l’invio di un gruppo di osservatori a Gerusalemme, e da allora i nostri interventi nel mondo sono stati oltre 70. Soltanto dal 1990 al 1994 le forze armate italiane sono intervenute in 14 Paesi, anche se sembra che nessuno lo ricordi, con l’impiego di 11.400 militari, dal pochi osservatori alle migliaia di uomini inviate nel Golfo Persico nel 1990-91 e in Somalia nel dicembre 1992, dove i nostri soldati uccisero (per la pace), più di mille somali. Il fatto è che, oltre alla regolare opposizione dell’estrema sinistra e degli intellettuall, il Pci - a partire dalla seconda metà degli anni Settanta ­mascherò con aspre critiche formali il suo sostanziale consenso, rendendo così possibili operazioni per le quali i governi dell’epoca non avrebbero avuto la maggioranza necessaria.

il 17 gennaio 1991 un governo presieduto nientemeno che da Giulio Andreotti (Dc, Pri, Psdi, storia antica?) ottenne dalla Camera l’autorizzazione a partecipare alla guerra del Goffo con 358 sì contro 228 no e 9 astenuti. La spaccatura maggiore avvenne fra le sinistre, e mentre Mario Capanna tentò di aggredire Andreotti al grido di «Complice in strage, servo!», Rosa Filippini dichiarò di approvare la decisione del governo. Consentite un’autocitazione, tanto anche se non la consentite la faccio lo stesso. Scrissi su questo giornale, 18 novembre 2001: «Alla luce di quanto è avvenuto dopo, non si può fare a meno di chiedere agli oppositori in quale stato si troverebbe il mondo se Saddam Hussein non fosse stato fermato; se non credono che, in un Irak florido e trionfante, non avrebbero trovato uno splendido terreno di coltura il terrorismo e quell’operazione antioccidente che invece deve ora accontentarsi delle montagne afgane».

Così è stato, ma peccavo di ottimismo: l’Irak, benché sconfitto, è tuttora un ottimo terreno di coltura per il tenore e il terrorismo internazionale, eppure c’è ancora chi vuole difendere una pace che è soltanto resa e remissività.

Andiamo oltre. Il 7 novembre 2001 il governo D’Alema ottiene (dal Polo, ma soprattutto dalla sua stessa sinistra, con giochi alchemici che neanche Giolitti e Moro sarebbero stati capaci) il permesso di intervenire in Kosovo, con il dissenso intellettuale di cossuttiani e bertinottiani. Chi, oggi, si sentirebbe di dire che quell’intervento non fu giusto, a parte alcuni intellettuali, guarda caso, di destra?

Infine, quanti e quali altri tragici orrori terroristici avremmo subito se i talebani afgani non fossero stati ridotti alla quasi impotenza - momentanea - dall’attacco americano dell’anno scorso?

Giordano Bruno Guerri

 

 

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