Quella assunta da Rita Levi Montalcini è
una posizione che non fa una piega, da vero scienziato: se la vita è
mia – come è mia – devo essere io a poter decidere quando e come
terminarla, senza che possano intervenire altri, né medici, né
parenti, né divinità.
I medici infatti ne farebbero un
discorso di semplice pratica clinica, di elettroencefalogrammi più o
meno piatti, che possono non tenere conto del dolore del paziente,
della sua disposizione a vivere, della sua voglia di lottare; o,
peggio ancora, di un accanimento terapeutico che può avere più il
sapore di un esperimento che di una volontà salvifica: “Si deve
aiutare a guarire, non a rimanere in vita se non c’è più speranza.”
Quanto ai parenti, presunti portatori di ultime volontà (“è pura
follia” affidarsi a loro, ha detto chiaro Levi Montalcini), meglio
tenerli fuori da queste decisioni, soprattutto quando si diventa
clinicamente un peso da vegliare in ospedale e – cinicamente – una
possibile fonte di introiti ereditari. Rimane la discriminante divina,
la convenzione religiosa per cui chi ti ha dato la vita deve essere
anche l’unico a potertela togliere, nel modo e nei tempi che gli
sembrano più opportuni. Per un non credente tutto ciò non ha senso, ma
mi sforzerei di richiamare l’attenzione dei credenti su qualche
aspetto che forse può portare a una conclusione diversa; primo fra
tutti che, se Dio ha deciso quando farti nascere, forse può lasciar
decidere a te quando morire; secondo aspetto, se Dio ha deciso di
inviarti la malattia che ti sta portando alla fine, è forse il caso di
andargli incontro; terzo, il Dio buono e generoso che ci ha voluto in
vita, una vita di gioia, non può volere che tutto si esaurisca in un
lungo strascico di dolore.
Che ognuno sia padrone della propria
morte, almeno, come dovrebbe esserlo della propria vita. □ |